La Roma del ‘600, la splendida città barocca dove tutto era scenografia, quinta di teatro, gioco prospettico: “maraviglia” per gli occhi non meno che per la mente. La città dai mille incanti voluta dai papi, dove ogni arte contribuiva all’edificazione di qualcosa di assoluto. Dalla pittura all’architettura alla musica, era come una stessa tonalità armonica, una sorta di ineffabile e prolungato do maggiore che avvolgeva la città in una coltre di bellezza. E la musica vi giocava un ruolo non indifferente, in piena sintonia con le architetture barocche, fino a divenirne quasi l’immagine speculare.
Orazio Benevoli si può considerare una figura emblematica di questo modo di sentire, con le sue composizioni sacre policorali, cioè a più voci distribuite spazialmente. E’ un po’ ad imitazione della Scuola Veneta, con le grandiose (e sfarzose) esecuzioni in San Marco, i Gabrielli, Monteverdi, Cavalli, dove l’elevazione spirituale si accompagnava alla spettacolarità dell’insieme. Di Benevoli, che ricoprì varie cariche importanti, fra le quali quella di maestro della Cappella Giulia in Vaticano, non sono rimaste molte cose, avendo egli spesso tralasciato di pubblicare le musiche. E tuttavia ciò che resta è notevole, come sperimentai di persona al Festival di Musica Sacra in San Pietro, ascoltando la “Missa Tira Corda”, a due cori alternati.
Santa Maria in Campitelli, capolavoro di Carlo Rainaldi nonché gioiello del barocco romano, venne edificata per celebrare la fine della terribile peste del 1656 che a Roma falcidiò oltre un decimo della popolazione (allora sui 100mila abitanti). E qui si è voluto eseguire la “Missa in angustia pestilentiae”, con un imponente organico vocale e strumentale decentrato il primo in alto nella cantoria e il secondo in basso, nel presbiterio. Proprio come un tempo, la Roma del ‘600, dove accanto alla forma dell’Oratorio, che aveva in Carissimi il suo massimo esponente, v’era quella di struttura liturgica, come la Messa, che nel secolo precedente aveva raggiunto vertici altissimi con Palestrina. E quale suo erede molti contemporanei indicarono proprio Orazio Benevoli.
In parte lo è, decisamente, e ben traspare dalla compattezza polifonica degli iniziali “Kyrie” e “Gloria”, di squisita fattura, un flusso liquido di voci che dalla cantoria si spande sul pubblico (l’effetto è incredibile, un po’ spiazzante, perché noi siamo abituati all’orizzontalità della musica). E tuttavia si avverte un timbro diverso, di gioiosità che non v’è in Palestrina, più rattenuto e severo, d’altronde questi visse ed interpretò i rigori della Riforma tridentina. Ma dalla “Missa Papae Marcelli” è trascorso un secolo, siamo in un’epoca nuova, dove la sensibilità barocca ha trasformato il gusto e lo stile, soprattutto nel campo dell’arte sacra. Così, se il contemporaneo Carissimi, che è già un innovatore, resta in un’àmbito, diciamo così, “classico”, Benevoli si esprime con un linguaggio impreziosito da una raffinata ricerca espressiva.
Il “Credo” rivela una struttura polifonica che, come tutta la Messa, pur nella sua complessità, ha un che di lieve, come una trasparenza di nuvole, con le voci in guisa di coro angelico. E pensi ai putti che s’affollano negli stucchi del soffitto, un’immagine barocca, certo, ma questa è la religiosità di Benevoli, al contempo delicata come un ricamo e densa come solo possono essere le chiese romane (e non solo) del ‘600 con il loro “horror vacui”. Questa è una preghiera, comunque, non una supplica come in passato, ma una richiesta, perché l’uomo del Barocco, maturato nella Rinascenza, è più consapevole di sé e prega in un modo diverso ma prega. E nel “Sanctus” come nell’ “Agnus Dei” si ha come l’idea di qualcosa che avviluppa il fedele, simile al manto della Vergine della Misericordia. E forse era proprio questa l’intenzione di Orazio Benevoli, evocare nel canto la protezione divina, a suggello di una Messa che celebra la fine del tempo del Male.
La sua esecuzione non è univoca ma intervallata da brani in gregoriano del “proprium missae”, com’era costume nelle composizioni sacre (vedi i fiamminghi), sì che il tutto se ne accresce in soavità. E così per gli altri interventi a carattere strumentale, le Sinfonie del fiorentino Cristofano Malvezzi (“La Pellegrina”) e del mantovano Salamone Rossi (“Sinfonia grave” e “Sinfonia a 5”), con largo impiego di ottoni, tipico della musica del ‘600. Si alternano alle parti della Messa con effetti sonori di raccolta armonia che creano come degli intervalli meditativi, mentre l’intervento dell’organo eleva in una sfera più alta. Il grande Frescobaldi, con pezzi liturgici (“Toccata quarta per l’organo da sonarsi alla levatione”) e non (“Canzone Quarta” e “Aria detta la Frescobalda”), quel suo sublime fraseggiare sulla tastiera che affascina sempre. E, infine, un altro grande, Claudio Monteverdi, con un brano dal “Vespro della Beata Vergine”, pietra miliare della musica sacra. “Ave Maris Stella”, la Vergine della Misericordia, che protesse Roma nell’anno di grazia 1656.
E ora gli interpreti che non posso citare tutti, limitandomi quindi agli organici. E sono la Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli, il Coro da Camera Italiano, l’Ensemble Strumentale La Cantoria, l’Ensemble di fiati Vigesimanona, inoltre il Canto piano, l’organo ed il basso continuo. A coordinare magnificamente il tutto, cosa non facile trattandosi di una riproposizione quasi filologica, in stile d’epoca, il Direttore Vincenzo di Betta. Davvero una splendida serata, decretata peraltro dall’entusiasmo del pubblico per la “novità”, vera primizia di questa primavera romana.
L’esecuzione straordinariamente coinvolgente accompagnata dala musica e dal canto, esaltati dalla magnifica cornice della Chiesa barocca per eccellenza, ha offerto al pubblico attento e numerosissimo una serata indimenticabile
L’esecuzione straordinariamente coinvolgente accompagnata dala musica e dal canto, esaltati dalla magnifica cornice della Chiesa barocca per eccellenza, ha offerto al pubblico attento e numerosissimo una serata indimenticabile