Nel 1723, dopo un lungo e fertile periodo di attività musicale in varie città della Germania (Arnstadt, Weimar, Cothen, dove fu Kappelmeister), Johann Sebastian Bach si stabilì a Lipsia dove, in qualità di Kantor della Thomaskirche, doveva scrivere cantate per le celebrazioni liturgiche. Un compito non indifferente perché a cadenza settimanale e, a complicare il tutto, s’intrecciava con la produzione non di routine, molto impegnativa per il Maestro (sono di questi anni gli Oratori e le monumentali Passioni). Così il Nostro ricorse alla tecnica, introdotta dai maestri fiamminghi, della “parodia”, cioè la rielaborazione di temi musicali, spesso con passaggi dal sacro al profano o viceversa. E così risolse un grosso problema, i cui effetti sono stati egregiamente illustrati nell’Aula Magna dell’Università dall’Akademie fur Alte musik Berlin.
Apre il frammento che resta della cantata “Ich geh und suche mit Verlangen”, lieve come una carezza e segue, integrale, “Mein Herze schwimmt im Blut”, sul tema della redenzione. Recitativo e arie e, di queste, soprattutto la prima, la dolcissima “Stumme Seufzer, stille Klagen”, voce e oboe impegnati a tessere una sorta di colorito arabesco. La nota costante è una serenità espressiva che permea l’intero brano, sia nei momenti di narrazione cantata, il recitativo, sia nei momenti di maggiore intensità emotiva, le arie. Qui la strumentazione enfatizza la parte vocale, drammatizzandola oppure, quasi stilizzata, ammorbidisce i toni fino alla tenerezza, come in “Ich, dein betrubtes Kind”, dialogo fra viola e voce.
Dal sacro al suo opposto, “Weichet nur, betrubte Schatten”, una delle 25 cantate profane di Bach (le sacre rimaste sono 200), dove il tema è l’amore che domina il mondo.
E l’aria introduttiva è aerea e giocosa come sottolinea il recitativo che segue, “Die Weit wird wieder neu” (Il mondo si rinnova), poi di nuovo un’aria sul motivo di Febo, morbido ricamo che si ripropone in, “Wenn die Fruhlingslufte streichen”, un fine modulato di voce e violoncello assolutamente delizioso. Ma anche il resto della cantata si rivela di notevole fattura (vedi la gavotta finale) e, pur nel suo clima un po’ malizioso, in contrasto (ma solo apparente) con la produzione sacra, si può considerare senz’altro fra le cose migliori di Bach. Forse fu scritta in occasione delle sue nozze con Anna Magdalena Wilcke, seconda moglie, e questo spiegherebbe il generale clima quasi di festa.
E ora la parte per soli strumenti, cioè, oltre al frammento già citato, il “Concerto in mi maggiore per violino, archi e continuo” e il “Concerto in fa minore per clavicembalo”. E’ un fluttuare di onde sonore che dilatano, si accavallano e poi rifrangono, con il violino solista (rispettivamente Georg Kallweit e Raphael Alperman) in primo piano. Probabile trascrizione di musiche precedenti, il Concerto in mi si articola nei classici tre movimenti di matrice vivaldiana, allegro-adagio-allegro (Bach riprese molte cose del Prete Rosso, si pensi alle trascrizioni dei suoi concerti per organo). Colorito e vivace soprattutto nel finale ma decisamente inferiore all’altro concerto, in Fa, dove si avverte l’assemblaggio di materiali diversi che però si accordano armoniosamente. E l’insieme ha un suo indubbio vigore espressivo, vedi il largo, quasi un pizzicato, e il movimentato finale.
Gli interpreti. Impeccabile l’esecuzione dell’Akademie fur Alte Musik Berlin, Georg Kallweit primo violino e konzertmeister, Barbara Halfter ,Thomas Graewe violini primi, Kerstin Erben, Uta Peters, Erik Dorset violini secondi, Anja-Regine Graewel, Clemens-Maria Nuszbaumer viola, Jan Freiheit violoncello, Walter Rumer contrabbasso, Raphael Alpermann clavicembalo, Laurent Benoit oboe, Lazar Katrin fagotto. Una nota a parte per il soprano Dorothee Mields, che ha saputo trovare le inflessioni giuste modellando la voce in piena sintonia con musica e testo (una scansione perfetta di alti e bassi). Proprio come avrebbe voluto il grande Johann Sebastian.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 25 ottobre 2015.il29 ottobre 2015.
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