Un fiammingo a Roma
Un fiammingo a Roma
di Antonio Mazza
Nei secoli XVI-XVII sono molti gli artisti fiamminghi presenti nell’Urbe, taluni in viaggio di studio, altri invece lasciando un’impronta ben definita. Come Jan van Scorel, il pittore ufficiale di Adriano VI, Maerten van Heemskerck che con i suoi quadri e disegni documenta la Roma del ‘500 (come la costruzione della nuova basilica di San Pietro), Paul Brill, con i suoi paesaggi fantastici e lavori nelle chiese e nei palazzi romani, François Duquesnoy con le sue pregevoli sculture (vedi Santa Susanna in Santa Maria di Loreto). Tutti, anche quelli cui le storie dell’arte hanno dedicato un paio di righe, hanno lasciato una traccia, ma nessuno ha stabilito una cesura così netta fra un “prima” e un “dopo” come un pittore tedesco di nascita ma fiammingo d’adozione. Ed è il senso della mostra in corso alla Galleria Borghese: “Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma”.
Classe 1577 il giovane Peter Paul dopo essere stato per alcuni a bottega ad Anversa scese in Italia nel 1600, pittore di corte del duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, suo mecenate durante il soggiorno italiano. Lavora a Mantova, poi a Genova e qui realizza opere notevoli, come il sontuoso ritratto di Violante Maria Spinola e la Circoncisione nella chiesa del Gesù. Ma è a Roma che la sua personalità artistica, già affermatasi, si fa dirompente, segnando quella cesura di cui parlavo. E’ il suo immergersi nell’anima antica dell’Urbe, tangibile nella realtà (Campo Vaccino con le sue maestose rovine, ruderi sparsi ovunque) come nel suo recupero (i musei con le raccolte di statue, la passione antiquaria e il collezionismo). Al centro della ricerca è il marmo che, avendo il suo ideale archetipico nel famoso “Torso del Belvedere”, si sviluppa nella doppia accezione di monumentalità e movimento.
Ecco il punto, se prima l’antico era solo un reperto da studiare e magari musealizzare, adesso, con il mutare dei tempi (i fermenti culturali del ‘600, soprattutto a Roma, cantiere d’arte), cambia la lettura. E, entrati in quello scrigno che è la Galleria Borghese, ne abbiamo subito l’esempio con tre capolavori: “La morte di Adone” (1614), “Prometeo incatenato” (1611-12), realizzato con la collaborazione di Franz Snyders, allievo di Pieter Brueghel il Giovane, e “La morte di Seneca” (1612-13). Se il primo dipinto, pur denunciando una certa maestosità delle figure (e quell’opulenza fisica che sarà sempre peculiare al feminino rubensiano), rivela comunque una sua grazia compositiva, gli altri due risultano di una bellezza quasi brutale. E’ quella monumentalità perseguita da Rubens, ma “viva”, che traspare dalla torsione delle forme (in particolare Seneca), il loro dinamismo che il maestro approfondisce nei suoi studi grafici, spesso di carattere anatomico. “Corpi drammatici”, una delle 8 sezioni nelle quali è divisa la mostra, ne chiarisce meglio il significato, ovvero la statuaria che si propone con toni, fino ad ora inediti, di coinvolgimento emotivo.
“San Sebastiano curato dagli angeli” (1602-4), “San Cristoforo e l’eremita” (1612-13), “Cristo risorto” (1616), tappe di un cammino dove l’enfasi stilistica delle figure, con la muscolatura in evidenza, è addolcita da una pennellata sobria ed una cromìa morbida, che rimanda alla scuola veneziana, Tiziano in particolare (e il Tintoretto, vedi il “Compianto sul Cristo morto”, 1601-2). Anche il Caravaggio era ammirato da Rubens che ne “Il seppellimento di Cristo” (1615-17), penna e inchiostro bruno, acquerello bruno su carta, riprese la “Deposizione nel sepolcro” oggi ai Musei Vaticani. Ma quella del Merisi era una monumentalità statica, a differenza della sua, e allora è giusto parlare di Rubens come l’iniziatore della “Scultura pittorica” (e scolpito è il doppio ritratto di “Agrippina e Germanico”, 1614, che, curiosamente, ha una foggia quasi neoclassica).
E qui subentra il tema dell’interessante ancorché ambiguo rapporto con Gian Lorenzo Bernini, che plasma l’elemento marmoreo in guisa di prorompente corporeità, come nel superbo “Ratto di Proserpina” (1621-22), dove è carne viva quella che Plutone stringe fra le mani. Diverso ma complementare l’approccio plastico che i due hanno con la materia, sulla tela il fiammingo, nel marmo lo scultore d’origine napoletana. A confronto alcune opere, disegni, terrecotte, busti, ritratti, ed entriamo più in profondità citando le “maccature”, le pieghe della pelle dei soggetti rappresentati, come ne parla Rubens in “Sull’imitazione delle statue”. Fondamentale per capire la sua arte che ha come modelli, oltre quello archetipico del Torso, anche un’altra fonte, lo “Spinario”, marmo del XVI secolo ripreso dal bronzo capitolino del I secolo a.C. (due bellissime sanguigne: “Copia e studio dallo Spinario” (1602) di Rubens e “Studio dallo Spinario” di Joachim Von Sandrart (1630), suo estimatore. Da notare anche, pure di Rubens, “Studio dal Toro Farnese” (1601-8).
L’ultima sezione, VIII, è dedicata al rapporto con Tiziano, del quale il maestro fiammingo eseguì numerose copie durante il suo soggiorno alla corte di Spagna. Il salone è quello del Sileno che, oltre a Caravaggio ed altri, ospita due capolavori tizianeschi, “Amore sacro e amor profano” (1515) e “Venere che benda amore” (1565), forse visti da Rubens nella collezione del cardinale Scipione Borghese (era un punto di passaggio obbligato per gli artisti stranieri che scendevano a Roma). E magari anche il gruppo in marmo pario del II secolo a.C. che rappresenta le tre Grazie, un tempo nella collezione Borghese ed oggi al Louvre, rievocato nel dipinto in monocromia qui esposto del 1620-23. Altri soggetti hanno fascinato Rubens, come risulta dal suo taccuino di disegni italiani e qui spicca il delizioso “Tre eroti dormienti” (fine XVI-inizi XVII secolo), un marmo misto di Gillis Van Den Vliete. Derivata dai “Baccanali” di Tiziano quello dei putti è un motivo sviluppato non solo da Rubens, come dimostra un bel bronzo dorato e lapislazzuli, su modello di François Duquesnoy, Michele Sprinati fonditore.
E di questo grande fiammingo, che a Roma ha lasciato intensi capolavori, “Romolo e Remo” (1612), le tavole della Chiesa Nuova (1606-7), oltre ai già citati “Compianto” e “San Sebastiano” (e, in quest’ultima sala, due versioni di “Susanna e i vecchioni”, del 1606 e 1614), cito ancora “Allegoria della Guerra” (1628), un piccolo olio che, nella sua desolazione, rispecchia simbolicamente la fragilità del nostro momento storico, dove la guerra rischia sempre di più di non essere solo una semplice quanto brutale allegoria…
“Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma” alla Galleria Borghese fino al 18 febbraio 2024. Da martedì a domenica h.9-19. Biglietto euro 13 intero, ridotto 2 (18-25 anni). E’ obbligatoria la prenotazione, euro 2. Per informazioni 0632810 e www.galleriaborghese.beniculturali.it
Ottimo articolo che descrive un artista che sicuramente era un grande pittore ma non “un genio”ma un ammiratore del genio.