“Tene me ne fugiam”, “Tienimi affinché io non fugga” e, ancora, “Servus sum domini mei”, “Servo sono del mio signore”. Sono le scritte incise sui collari degli schiavi della Roma imperiale, la cui grandezza è per buona parte dovuta allo sfruttamento di una forza-lavoro smisurata. Si stima che ci fossero fra i 6 e 10 milioni di schiavi su una popolazione di 50-60 milioni di individui, quanti erano compresi nei confini dell’Impero. Naturalmente le condizioni di vita erano durissime, gli schiavi come oggetti magari preziosi per quanto se ne poteva ricavare ma pur sempre oggetti i quali, nel 73 a.C., guidati da un Trace, si ribellarono contro Roma. Il loro capo, era un gladiatore, Spartaco, al quale la mostra dell’Ara Pacis dedica un ritratto che in realtà è l’affresco di un’epoca con i suoi usi e costumi.
L’inizio è il momento delle catene, perché “Omnes homines liberi sunt aut servi” e questo significava la schiavitù in seguito alle sconfitte militari (dopo ogni campagna a Roma confluivano migliaia di prigionieri che venivano poi battuti all’asta) o altre ragioni, per esempio i debiti. Quello degli schiavi era un mercato fiorente e chi lo praticava, seppure il suo mestiere fosse giudicato sordido, alla stregua del lenocinio o dell’usura, godeva sempre di appoggi potenti. Era il mercante che riforniva la nobiltà e l’aristocrazia romana di mano d’opera a costo zero ed alimentava la prostituzione nei lupanari o nelle case private, essendo lo schiavo (o la schiava) proprietà anche sessuale del padrone. E qui vari reperti, dall’applique con la figura del prigioniero in bronzo dorato alle scene di schiavitù nelle domus o nei campi, documentate da un magnifico mosaico o evocate nei quadri di Camillo Miola, pittore napoletano della seconda metà dell’800. Ma anche l’aspetto erotico, vedi il bellissimo specchio in bronzo, che poteva anche comportare un rapporto affettivo fra padrone e schiava (come lascia supporre il bracciale d’oro da Moregine. Ma basta ricordare la figura di Petronio e la sua schiava Eunice).
Spartaco, la rivolta che fece tremare Roma, poi repressa nel sangue, con 6000 ribelli crocifissi lungo la via Appia, da Roma a Capua (dramma evocato, con molto realismo, in “Campo scellerato”, quadro di Fyodor Andreyevich Bronnikov). E nasce la leggenda, che nel tempo ha dato numerosi frutti, dalla letteratura (Howard Fast, ad esempio) al cinema (l’indimenticabile interpretazione di Kirk Douglas per la regia di Stanley Kubrick), senza dimenticare la derivazione “politica” (la “Spartakusbund”, la Lega Spartachista tedesca fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht). Dopo, se da un lato vi fu maggior controllo sugli schiavi, per evitare nuovi focolai di ribellione, dall’altro vi fu anche la (sia pur ancora molto pallida) presa di coscienza che erano pur sempre esseri umani con i loro diritti. Già Scipione Emiliano aveva biasimato lo sfruttamento spesso brutale degli schiavi ed anche Diodoro Siculo (“battuti e flagellati oltre ogni ragione”), poiché v’erano padroni assolutamente disumani, come Publio Vedio Pollione che, quando si stancava di uno schiavo, lo gettava in pasto alle murene (e venne esemplarmente ripreso da Augusto). Di certo grazie al loro sudore e sangue prosperava il latifondo, si arricchiva la struttura agricola delle ville suburbane e ferveva il lavoro nelle miniere (ma anche le città ne usufruivano: vedi il plastico di una “fullonica”, tintoria gestita da schiavi). E qui alcune testimonianze, da uno stupendo gruppo scultoreo che riprende la scena della bollitura del maiale ad una gerla che portavano i minatori, la maggior parte destinati a vita breve (crolli improvvisi, allagamenti, silicosi). E neanche i bambini erano risparmiati, anche se operavano in condizioni meno dure, come si può dedurre dalla deliziosa statuetta del “lanternarius” addormentato.
C’erano poi i mestieri che potevano esercitare gli schiavi, taluni infamanti, la prostituzione, i gladiatori, gli aurighi, gli attori (questi rappresentati in statue di grande forza plastica), altri più onorevoli, come medici e chirurghi, spesso schiavi greci (la tradizione che risale ad Esculapio). Ma, pur in un generale clima repressivo, Roma riconosceva agli schiavi la possibilità di risalire la scala sociale, giungendo cioè allo stadio di liberti (per merito o per aver comprato la propria indipendenza). Talora diventavano a loro volta “mangones”, commercianti di schiavi, ma più spesso si evolvevano. E’ il caso di scrittori come Terenzio e Fedro, il filosofo Epitteto, il poeta e drammaturgo Livio Andronico, Trimalcione, protagonista del “Satyricon” di Petronio Arbitro (la figura del cafone arricchito, come diremmo oggi). Di certo neanche con l’avvento del cristianesimo cessò la schiavitù, si attutì nel senso di maggiore umanità dei padroni ma continuò durante i primi secoli del dominio della chiesa e poi nel medioevo. Sbiadito ormai il ricordo dei “Saturnalia, perché riti pagani ai quali si era, non a caso, sovrapposta la celebrazione del Natale, riti che celebravano un momento di eguaglianza – effimera, certo- fra servi e padroni, la schiavitù, con alti e bassi, ha fatto da basso continuo alla storia dell’umanità fino ad oggi (vedi i documenti fotografici annessi alla mostra). E continua a farlo, ovunque nel mondo, e in Italia di esempi ne abbiamo purtroppo molti, dai “caporali” che sfruttano la mano d’opera nei campi, agli scafisti che ammassano merce umana in barconi fatiscenti diretti verso le nostre coste. E lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo continua e Spartaco (e tanti altri come lui) è un simbolo che si perde nelle nebbie del tempo…
“Spartaco. Schiavi e padroni a Roma”, Museo dell’Ara Pacis fino al 17 settembre. Tutti i giorni dalle 9,30 alle 19,30, biglietto solo mostra euro 11 intero 9 ridotto, integrato per residenti euro 17 intero 13 ridotto, per residenti 16 intero 13 ridotto. Per informazioni www.arapacis.it e www.museiincomuneroma.it
Scritto da: Antonio Mazzain data: 29 giugno 2017.il30 luglio 2017.
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