Sacro Tibet
Sacro Tibet
di Antonio Mazza
La prima impressione, osservando quei quadri densi di persone e paesaggi, la loro composizione cromatica, il taglio figurativo, è che siano opere dell’800 francese, la famosa Scuola di Barbizon, Millet in particolare, un romanticismo di fondo che però stempera in toni più duri, alla Courbet. Poi ti avvicini e muta la prospettiva, perché la dimensione rappresentata, pur con toni a noi familiari, è “altra”, un mondo nel quale tutto appare immerso in una spiritualità diffusa, come una sottile magia che impregna uomini e natura uniti in perfetta simbiosi. La sacralità dei monti innevati si riflette in quella di un quotidiano scandito dalle ruote di preghiera e dal salmodiare dei monaci e questo è il Tibet, come viene rappresentato nella mostra di Palazzo Bonaparte: “ Han Yuchen, Tibet splendore e purezza”.
La prima impressione è dunque confermata, Han Yuchen ha approfondito la pittura francese di quel periodo restandone affascinato tanto da creare nel 2007 un Museo d’Arte nella città di Handan, con opere di Millet ma anche Corot e Goya nonché gli italiani Antonio Mancini e Domenico Morelli . L’800 europeo nella sua fase di realismo narrativo è il punto di riferimento di questo grande pittore cinese, che ne coglie l’essenza ma con una sfumatura diversa, più intimistica, come appunto nei quadri a tema tibetano. Formatosi negli anni tumultuosi e difficili succeduti alla Rivoluzione Culturale (il padre, uomo di lettere, fu accusato di “attività controrivoluzionarie”), Han plasmò la sua personalità prima frequentando l’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino e poi come allievo del pittore e scultore Zhang Wenxin. Infine è approdato a quella che Gabriele Simongini, curatore della mostra, definisce una forma di “realismo etico”.
Il Tibet è per lui il luogo dell’anima, ove fuggire da una Cina nella quale non si riconosce, dove ormai impera “un modo di vivere che ha segnato l’impoverimento dell’antica tradizione spirituale e umanistica”, come ha dichiarato in un’intervista. E’ la Cina del XXI secolo, capitalista e consumista, dove l’anima viene svenduta ogni giorno al dio Profitto, come del resto avviene in Occidente, e allora è qui, fra le montagne, i villaggi e i monasteri del Tibet che Han Yuchen viene per ritrovare una spiritualità sperduta. Fra questa gente, come “Nyima”, il ritratto che pubblicizza la mostra, o “Al pascolo”, con la pastorella che conduce una mandria di yak o, ancora, la folla che assiste alla “Corsa dell’anello”. Gente semplice, che nel volto porta le rughe del tempo e i segni della fatica quotidiana contro una natura aspra e spesso ostile e tuttavia gente la cui vita scorre serena, all’ombra dei maestosi paesaggi himalayani.
Una sorta di luce interiore filtra dalle oltre cinquanta opere esposte che si alternano in tre sezioni, “Paesaggi”, “Ritratti” e “Spiritualità”, dove le persone, gli animali, le cose appaiono fissati come in uno stato di grazia. E il tratto di pennello, il colore, la cura nella tipicizzazione del soggetto (e qui si avverte la mano del calligrafo, una peculiarità tutta cinese), ogni cosa esprime un senso di quiete. Han ha saputo cogliere l’aura che permea le opere, sia situazioni isolate sia di gruppo, vedi “La ragazza con la sciarpa” o “La guardiana” e, di contro, “Sul Lago Ranwu” o “Con il vento e la neve”. E’ tutto allo stesso livello, una serenità diffusa che si riflette nella trama del dipinto stesso, anzi, ne deborda comunicandola al visitatore. E che raggiunge il suo massimo quando ritrae il Tibet confessionale, anche se qui appare improprio usare la nostra terminologia occidentale, distinguendo fra “laico” e “religioso”.
In Tibet il confine fra umano e “oltre il confine” non esiste, tutto è soffuso di una levità sospesa, quale traspare da tele come “Processione religiosa”, “La devota”, “Lungo la via del pellegrinaggio”, “Bandiere di preghiere al vento”, la religiosità popolare alla quale fa da controcanto quella dei monasteri, “Incanto spirituale”, “Pellegrinaggio in rosso”, “Ripetendo mantra all’infinito”(stranamente non compare la raffigurazione dello “Stupa”, simbolo importante della religiosità tibetana). Se questo percorso pittorico sembra avere le cadenze di un meditato saggio etnografico e senz’altro lo è, al contempo lo si può anche definire un viaggio all’interno di un sé perduto, di valori abdicati in nome di un progresso dove l’algoritmo rischia di sostituire la presenza umana. Dunque il Tibet come uno stato innocenziale, l’Eden ritrovato e scolpito in immagini dove recuperare i ritmi duri ma semplici di un mondo nel quale ancora si percepisce la vibrazione del Sacro.
Palazzo Bonaparte (piazza Venezia): “Han Yuchen. Tibet, splendore e purezza”, fino al 4 settembre, tutti i giorni h.11-21, biglietto intero euro 10. La mostra è a cura di Nicolina Bianchi e Gabriele Simongini. Per informazioni 068715111 e www.mostrepalazzobonaparte.it
Inserire un commento