“S-Memorare è un’arte?”. Luisa Sanfilippo al Teatro Tordinona, Roma
Pubblicato: 3 giugno 2018 di admin in News // 1 Commento
di Cinzia Baldazzi.
Non è verosimile individuare un minimo spazio vuoto, poiché occupato dal pensiero e dall’anima: siamo nella piccola e affollata sala del Tordinona, a sprazzi illuminata, un angolo dei più celebri della Capitale, a due passi dal Tevere e alle spalle di Piazza Navona. Raggiungendo il teatro gestito da Renato Giordano in attesa di assistere, fra le altre performance, a S-Memorare è un’arte? di e con Luisa Sanfilippo, rammento a me stessa l’originale versione narrativa del testo: già so che, di lì a poco, sarò interamente implicata o travolta da un flusso energico di ricordi, di sana follia, dove gli episodi della veglia e le ombre del sonno appaiono semplice formalità, in scala realistica e immaginaria.
Sgomberato e reso libero per la rassegna “Schegge d’autore”, XVII Festival della Drammaturgia Italiana, il palco si presenta vasto e oscuro, il soffitto alto, come fosse l’arco compresso dell’orizzonte disponibile; una sedia, un tavolino, pur nella loro limitata estensione fisica, lo riempiono di riferimenti, mentre la protagonista è introdotta in campo ondeggiando le mani, canticchiando al ritmo di una melodia silente per il pubblico. Ammiro gli indumenti di tessuto a fiori stampati, il cappello di paglia, la borsa sotto braccio dalla fiammante tonalità scarlatta, in linea con uno smagliante paio di scarpe in vernice rossa e nera.
Appena parla, sono ben conscia di quanto, dalle righe di un racconto all’hic et nunc teatrale, battute e scene cambino al completo: il veicolo, anzi “i veicoli” di esse, nell’intervallo tra significante e significato, possono risultare solo in parte guidati dalla nostra fantasia, trovandosi, di attimo in attimo, al cospetto dell’interprete, dell’autore della scenografia, delle luci, della musica. Tale intelaiatura semantica generale scaturisce, nel monologo della Sanfilippo, secondo indici potenziati, essendo l’intreccio della pièce collocato di proposito in un’analogia di tappe ancora da percorrere dalla forma al contenuto, comunque esistente lungo l’asse di una memoria del dire e del materializzare, dell’agire e del coltivare.
Agli inizi dell’evento, quindi, la variopinta signora, in procinto di uscire da casa per recarsi a un rendez-vous o sbrigare qualche impegno, lamenta l’inutilità del “nucleo poetico” (nel senso di scarsa trasmissione di notizie pragmatiche): «Bella espressione. Quand’ero ragazzina le scrivevo le poesie, potrei ricominciare… ma che me ne faccio adesso della bella espressione!». Non è una trama, infatti, di significazioni, ricca di referenti di cui, divenuta adulta, la lady percepisce l’impellenza: «Piuttosto devo capire perché mi sono preparata per uscire, truccata, vestita in modo elegante». Si osserva perplessa: «Elegante? Più o meno, non so… Cosa devo fare? Che progetti ho?». La domanda esplicita, consumati i pochi metri di distanza dall’attrice, quasi colpisse in misura diretta, esorta una replica adeguata. È difficile, però, scegliere la risposta opportuna, se numerosi giorni per noi scorrono impiegando un codice linguistico scomodo da intendere a causa di una struttura troppo convenzionale, precaria e destinata a rimanere schiacciata dallo stress di influenze esterne.
Sarebbe forse il caso, allora, di rivolgere alla nostra sagace, distratta ma erudita anti-eroina, alcune parole di Tomás Segovia, grande poeta contemporaneo vissuto in Messico, racchiuse in Dimmi donna (1927): «dimmi non posso più con tante armi / donna seduta sdraiata abbandonata / insegnami il riposo il sonno e l’oblio / insegnami la lentezza del tempo […] il tuo corpo tenebroso e raggiante plasmato di slancio senza incertezze / il tuo corpo infinitamente più tuo che per me quello mio / e che dai di slancio senza incertezze senza tenerti niente».
Ed ecco la Sanfilippo, rilassata sulla sedia, chiedere: «Devo dunque sprofondare – ad ogni s-memoria – in un mare di inerzia, lasciare svaporare il cervello, nascondermi dietro un muro di nebbia… […] L’intelletto potrà riaccendersi di una luce abbagliante? Abbagliante… mah!». Chissà in virtù di quale cliché ispirativo, l’unico personaggio-interprete riesce a transitare nel messaggio elaborato conversando con sé, per se stessa, e di sé, da soggetto e oggetto del discorso. Pare di ascoltare il monito di Julien Greimas: il semiologo sconsigliava di credere autonome la fase di giudizio di autoriflessione dell’Io narrante e la pausa dedicata a illustrare la cosalità, i dati circostanti o presunti. Insomma, con una tecnica attoriale raffinatissima, la Sanfilippo sembra rendere operativa, in termini drammaturgici, l’ipotesi dell’insigne studioso lituano: «Il soggetto di fare si presenta come un agente, come un elemento attivo che raccoglie in sé tutte le potenzialità del fare; mentre il soggetto di stato appare invece come un “paziente”, come colui che riceve passivamente tutte le sollecitazioni del mondo, inscritte negli oggetti che lo circondano». Ebbene, chiamando il gatto sordo (l’affettuoso Tombolino) per coccolarlo, rievocando un’esperienza lavorativa trascorsa, un legame d’amore esaurito, nell’atmosfera desolante e non disperata dell’habitat, la donna chiarisce: «Con un po’ di ironia potremo magari riguadagnare un giusto rapporto con le persone e le cose, imparando a riconoscere l’esistenza nella sua fragile bellezza, godendola per quello che è, e non per quello che pretendiamo che sia. Allora S-memorare – per rimuovere le banalità dell’esistenza – può diventare un’arte!».
In platea regna un silenzio complice: forse è conquistata da un corpo femminile d’antan gestito con tenerezza e cruda quotidianità, o dall’aver accettato la comprensione di una sapienza senza strade risolutive, o in grado di proseguire oltre i viali affidati a società immobiliari per vendere o affittare appartamenti e residences. E così, le braccia e le mani dell’inquietante performer si alzano nell’aria, spostando qua e là, sullo sfondo di un margine utopico, le cattiverie subite, il loro biglietto da visita, le ricevute strappate nell’area di un muro di anime assortite con volti sorridenti e mesti contro una parete invisibile dove, però, è stata combattuta, e lo è ancora, una battaglia per noi: per sfiorare l’auspicio di tornare a tempi propizi, purché questo combaci con un desiderio concreto.
Ormai fuori dal teatro, ho la certezza: ha ragione Luisa Sanfilippo. È comunque vero che dobbiamo essere felici se e solo nel momento in cui lo vogliamo.
Bel commento critico di Cinzia Baldazzi.