Guido Reni, ovviamente, un nome che evoca un grande pittore del ‘600, molto attivo nella nostra città dove ha lasciato opere notevoli (e cito quella più amata dai romani: il Cristo in San Lorenzo in Lucina). L’altro nome invece è senz’altro meno noto e, come vedremo, ingiustamente, perché Agostino Masucci, allievo di Carlo Maratta, fu una personalità non secondaria nel panorama pittorico della Roma settecentesca.
Peraltro c’è un legame fra i due ed è merito della piccola ma deliziosa mostra alla Galleria Corsini, “Guido Reni, i Barberini e i Corsini. Storia e fortuna di un capolavoro”, d’aver fatto non solo apprezzare di più Reni ma riscoprire un pittore finito nell’oblìo quale appunto Masucci.
Nel 1629 papa Urbano VIII Barberini canonizzava in San Pietro il beato Andrea Corsini, frate carmelitano vissuto a Firenze nel ‘300 ed ivi sepolto nella chiesa di Santa Maria del Carmine. Per celebrare l’evento monsignor Ottavio Corsini commissionò a Guido Reni la “Visione di Sant’Andrea”, facendone dono al pontefice che lo inserì nelle collezioni di palazzo Barberini. Qui rimase fino al 1936 quando, per un matrimonio che univa le famiglie Barberini e Corsini, finì nella fastosa residenza di questi ultimi, sul lungarno fiorentino. Di qui passò agli Uffizi che lo hanno attualmente prestato per un doppio raffronto: con un’altra versione reniana del Sant’Andrea e con la sua copia ad opera del Masucci.
Nel 1732 papa Clemente XII Corsini lo incaricò di duplicare l’immagine del Santo per una successiva versione musiva destinata all’altare della cappella di famiglia in San Giovanni in Laterano (era consuetudine, all’epoca, replicare i capolavori in tessere di mosaico, perché più durevoli, come si può vedere nella basilica di San Pietro, in particolare la Trasfigurazione di Raffaello. Ma fu una tecnica non molto seguita, “ricercando il musaico sontuosa spesa”). E il risultato è un’opera tutt’altro che di pedissequo ricalco, come possiamo oggi ammirare accanto all’originale modello reniano: un’opera di magnifica fattura che la riproduce fedelmente ma con un tocco vitale diverso.
Vediamo il Sant’Andrea di Guido. Qui viene esaltata la sua visione del linguaggio barocco, non quella limpida e tuttavia maestosa e squisitamente scenografica dei grandi interpreti del barocco romano (Bernini, Borromini, Pietro da Cortona) bensì un qualcosa di più raccolto, che parte da lontano (i classici, Raffaello) e, dopo essersi rapportato al naturalismo caravaggesco, trova una sua compiuta forma espressiva. Il tocco delicato, l’equilibrio cromatico, il perfetto gioco di luci e la serenità che promana dai personaggi (il Beato e gli angioletti di sfondo) fanno del Sant’Andrea una composizione di assoluta grazia, quale si ritrova nel soavissimo “Putto dormiente”, affresco distaccato e inserito nella cornice voluta dal cardinale Francesco Barberini. Anche l’altra versione più tarda del Sant’Andrea riflette eguale senso delle proporzioni ma tende a toni meno marcati, un po’ rarefatti, come si nota nella mano sinistra del prelato. La ricerca di Reni si dirige poi su altri materiali meno deperibili, quali supporti di rame e seta per preservare meglio la pittura e la drammatica “Addolorata”, olio su rame ovale, è qui a testimoniarlo.
E passiamo al Masucci. Il suo Sant’Andrea, come già accennato sopra, è sì una copia perfetta di quello del Reni ma se ne distingue nelle sfumature. E queste sono nell’uso del colore, nella plasticità del panneggio e nel tocco complessivo, di fine fattura, come traspare dai quadri esposti accanto, “Ritratto di Clemente XII Corsini”, “Ritratto di Clemente XII e del cardinale Neri”, ma soprattutto “Ritratto del cardinale Neri Maria Corsini insieme a Padre Evora e altri prelati” e “Beata Caterina de’ Ricci”. Colpisce l’eleganza formale che però nulla ha di aulico come spesso avveniva per la pittura del ‘600, resa con tonalità morbide che mettono in risalto la plasticità delle figure. E ciò è più evidente nella “Beata Caterina”, un capolavoro dove la corale armonia dell’insieme si compone in modo da evitare qualsiasi retorica tentazione agiografica. Masucci fu un notevole ritrattista, considerato il precursore di Pompeo Batoni, un’artista che “continuamente ne va facendo per molti signori romani e forastieri, e particolarmente nei ritratti si esercita molto, esprimendoli con gran vivezza e similitudine”, come scriveva un suo contemporaneo.
La fase successiva alla copiatura era la trasposizione in mosaico ed eccone alcuni molto belli su modello reniano, come il “Ritratto di Roberto Ubaldini”, di Giovanni Battista Calandra, il miglior mosaicista del seicento romano che lavorò molto in San Pietro, e la famosa “Sibilla Persica”, di Mattia Moretti (presente anche in Portogallo: sue opere sono nella chiesa di San Rocco, a Lisbona). Ed anche il Masucci vi figura perché il “Ritratto di Clemente XII Corsini e del cardinale Neri Maria Corsini” è ripreso in mosaico da Pietro Paolo Cristofari, anch’egli molto attivo in San Pietro (vedi la versione in mosaico del San Girolamo del Domenichino). E tutto questo insieme di opere, decisamente di gran pregio, oltre a fascinare il visitatore, già sedotto da quel piccolo-grande scrigno d’arte che è la Galleria Corsini, rimanda alla Roma del passato e delle grandi famiglie romane, come lo furono i Barberini ed i Corsini.
“Guido Reni, i Barberini e i Corsini. Storia e fortuna di un capolavoro”, Gallerie Nazionali d’Arte Antica – Galleria Corsini, fino al 17 febbraio 2019. Dal mercoledì al lunedì h.8,30-19, biglietto intero Barberini Corsini euro 12, ridotto 6.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 25 luglio 2018.il24 marzo 2019.
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