Regina Viarum
Regina Viarum
di Antonio Mazza
L’Appia, naturalmente. Questa nobile dama decaduta che, pur gravata dalla patina dei secoli, ha in molti tratti conservato il suo antico fascino, dove rovine, paesaggio e silenzio si fondono in un’unica, meravigliosa immagine. La principale arteria dell’impero romano, strada militare che partiva da Porta Capena e giungeva a Brundisium, Brindisi, poi, nel medio evo, divenuta Via Peregrinorum, con i Romei che, visitata la tomba di Pietro, si recavano in Terra Santa. “Or tace la Via Appia, un tempo rumorosa per le moltitudini”, scriveva nel 1782 Alessandro Verri, letterato lombardo (con il fratello Pietro fondò “Il Caffè”, importante pubblicazione di stampo illuminista). E se l’Appia, nei secoli, era avvolta dal silenzio della Campagna Romana, questo divenne clamore negli anni del boom economico, quando la Regina Viarum, già spogliata nel tempo, dovette subire un nuovo oltraggio dalla speculazione edilizia. “I gangster dell’Appia”, titolava i suoi articoli Antonio Cederna, una lunga battaglia che alla fine portò, nel 1988, all’istituzione del Parco Regionale dell’Appia Antica, una vasta area (più di 4500 ettari) che si estende verso i Castelli.
“Regina Viarum. La Via Appia nella grafica tra Cinquecento e Novecento”, la bella mostra a cura di Gabriella Bocconi ospitata nelle sale dell’Istituto centrale per la grafica, propone un percorso visivo a ritroso nel tempo, percorso dove incisioni, disegni, matrici, foto, libri formano un unicum che esalta la magia dell’Appia. 70 opere di grande qualità che, con immagini spesso molto incisive, narrano la strada attraverso le opere murarie che la fiancheggiano, monumenti funebri, resti di ville, rovine sparse, catacombe. Magari la testimonianza di qualcosa che non esiste più come il “Septizodium” o Settizonio, imponente struttura a più piani voluta dall’imperatore Settimio Severo e demolita da Domenico Fontana per volere di papa Sisto V, ripresa da un inchiostro di Maarten Van Heemskerck, 1532, e da un’acquaforte di Etienne Dupérac, 1621 (quasi sfumata la prima, più netta la seconda).
Di qui partiva l’Appia, dal luogo del Mito, dove Numa Pompilio aveva salutato la ninfa Egeria, come narrato da due importanti pittori italiani, Luca Cambiaso (“L’incontro fra Numa Pompilio e la ninfa Egeria”, penna e inchiostro) e Carlo Maratta (“Numa Pompilio riceve le leggi dalla ninfa Egeria”, sanguigna). Da citare anche la bella acquaforte dell’olandese Herman Van Swanevelt, “La grotta della ninfa Egeria”, 1620 e, con un salto temporale, “Il bosco sacro alla ninfa Egeria”, un delicato carboncino del 1918 di Onorato Carlandi , membro del famoso gruppo dei “XXV della Campagna Romana”. Proseguendo sul tracciato stradale troviamo ai bordi chiese, sepolcri, monumenti vari, che sono qui riproposti secondo i moduli espressivi, ovvero le varie tecniche adoperate. L’acquaforte, “Monumenti della Via Appia dalla Porta Capena al miglio XI”, di Paolo Cacchiatelli e Gregorio Cleter, metà ‘800, il disegno, “Veduta dell’acquedotto neroniano da Villa Volkonsky”, di Walter Crane, 1873, “Ecclesia San Sebastiani”, di Giacomo Lauro, fine XVII secolo, l’acquerello, “Arco di Druso e Porta San Sebastiano”, di Frédéric Reclam, seconda metà XVIII secolo, la xilografia, “La Via Appia. Roma”, di Nino Finamore, 1899, la foto, gelatina in bromuro d’argento, “Tomba di Seneca”, di Alessandro Vasari, 1910.
Sono solo alcuni esempi di un cospicuo quanto suggestivo florilegio di immagini che trova il suo momento più alto nell’esposizione delle matrici, i “rami”, con le stupende composizioni di Giovanni Battista Piranesi. Il sublime caos del “rovinismo” piranesiano, come traspare da “Veduta degli Avanzi di alcune camere sepolcrali, esistenti sull’antica Via Appia fuori Porta San Sebastiano”, 1751-56 o il “Frontespizio Antiquus bivi viarum Appiae et Ardeatinae”, stesso periodo. E, naturalmente, la Tomba di Cecilia Metella, da sempre il punto più gettonato dell’antica arteria. E troviamo qui ancora il buon Piranesi, “Sepolcro di Metella detto Capo di Bove”, con annessa la matrice di rame, nonché la figlia Laura che se la cava niente male (“Sepolcro di Cecilia Metella or detto Capo di Bove”, acquaforte). E poi di nuovo il padre con un particolare del sepolcro, “Capo di Bove fuori Roma”, Giovanni Maggi, “Meta detta Capo di Bove”, 1618, acquaforte, “Capo di Bove fuori Roma”, fascinosa acquaforte di Israel Silvestre, seconda metà del XVII secolo.
Si prosegue verso sud e cito alcuni passaggi del percorso. “Il canale di Terracina”, una bella acquaforte di Angelo Rossini, 1911, “Le rovine di Terracina”, xilografia di Duilio Cambellotti, 1948 (dopo i bombardamenti), “Itri ingresso alla città” di Luigi Rossini, 1836, dal “Viaggio pittoresco da Roma a Napoli”, “Appostamento di sentinelle nelle vicinanze di Melfi” del garibaldino Giulio Gorra, 1860, “Fianco esterno dell’abbazia della SS.Trinità di Venosa”, albumina di Romualdo Mascioni, 1900, e giù fino a Brindisi, il punto finale dell’Appia, con un delicato disegno di Frans Vervloet, “Colonna romana a Brindisi”, 1829, e un’acquaforte d’intonazione barocca di Cesare Fantetti, “Agrippina sbarca a Brindisi con le ceneri di Germanico”, 1673, incursione in quella densità di Storia che rende la Via Appia qualcosa di unico. Ed è quindi giusto che il Ministero della Cultura ne abbia proposto la candidatura nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco e la mostra ne è il migliore auspicio.
“Regina Viarum. La Via Appia nella grafica fra Cinquecento e Novecento” all’Istituto centrale per la grafica fino al 7 gennaio 2024. Da martedì a domenica h.10-19, ingresso libero. Per informazioni www.grafica.beniculturali.it E’ possibile navigare all’interno del sito visitando tutte le opere con relativa documentazione.
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