Sì, incontrarli è sempre un evento perché i Momix sanno ogni volta ammaliarti con le loro incredibili creazioni che sono un misto di danza, esibizione ginnica, scenografia stilizzata e momento ludico, il corpo quale baricentro assoluto. La fisicità è il nucleo pulsante, il centro di ricerca che, nel tempo, ha decretato il successo dei Momix, con spettacoli ormai divenuti dei classici sin dai tempi del mitico “Pilobolus”, fondato nel 1971 da Moses Pendleton ed altri. Poi, nel 1980, i Momix, una lunga serie di successi internazionali (uno fra tutti: “Passion”) come questo “Opus Cactus” presentato al Teatro Italia (l’Olimpico per ora è inagibile) e definito dal New York Times spettacolo “dalla sfrenata fantasia di immagini lussureggianti”.
E’ proprio così e risalta in pieno nei sedici quadri che evocano il deserto con le sue mille vite visibili ed invisibili, il cactus quale simbolo di un mondo alieno e tuttavia familiare, quasi una dimensione dell’anima. E qui si compongono e scompongono le rappresentazioni, in una geometria di forme che affascina per la sua complessa semplicità. Perché il punto di partenza è la figura umana nella sua essenza, poi la visuale si ampia ed è un fascinoso intreccio di combinazioni che sviluppano il tema della corporeità inteso come ricerca di un assoluto fisico.
Ecco l’elemento-corpo che sviluppa e assorbe in sé i ritmi segreti del deserto e sono quelle caratteristiche palle vegetali trascinate dal vento (e che ben conosciamo dai film western: la “Salsola tragus”, detta anche “rotola campo”) o la fioritura improvvisa, che dura lo spazio di una breve stagione. Ma sono anche quegli animali strani in corsa fra le sabbie roventi, insetti, micidiali serpenti o piccoli sauri come il mostro di Gila. E i corpi mimano, si snodano, si congiungono l’uno l’altro in iperboliche costruzioni simili ad un fantastico lego animato.
Questa non è solo danza, è esercizio ginnico, atletica allo stato puro, perché i dieci impegnati nella performance (cinque uomini e cinque donne) appaiono concentrati in qualcosa che è un po’ una sfida alle leggi fisiche. E osservare le loro evoluzioni, intrise di un (non tanto) lieve sapore circense, dà la stessa sensazione di piacere che si prova innanzi a fenomeni naturali come un gioco di nuvole o un bel tramonto.
Il motivo si chiarisce nel corso dello spettacolo ed è quel senso panico che sprigionano le figurazioni dei Momix, talora semplici silhouettes che s’incrociano sul palco. Davvero, in quelle forme, percepisci un sottile legame con la terra, il deserto e la sua anima, che è insieme vastità, l’orizzonte che si perde all’infinito, e una miriade di ecosistemi che la popolano. E i ballerini-atleti rendono col loro corpo questa dualità, esaltandola in una maniera direi plastica, come traspare bene dai quadri dove evocano i nativi americani, che con la terra avevano un vincolo quasi di sangue (in quest’area vivevano tribù Hopi e Navajo). Ne deriva un che di primitivo e ancestrale, come nella finale Danza della Morte e al tutto non è certo estraneo il contributo musicale, anzi, ogni quadro disegnato da ritmi incalzanti che talora hanno un che di rituale (vedi la magia dei suoni di Brian Eno per la fioritura nel deserto). E, ad evidenziare maggiormente quel senso panico di cui dicevo sopra, nella sound-track figurano anche canti degli aborigeni australiani e, naturalmente, dei nativi americani.
“Opus Cactus” segna un po’ il ritorno alle origini, le prime esperienze in chiave di “body sculpture”, che tanto piacevano a Frank Zappa. E qui è d’uopo nominare tutti, non foss’altro per la loro atletica bravura: Anthony Bocconi, Gregory Dearmond, Jenna Marie Graves, Rebecca Rasmussen, Morgan Hulen, Jennifer Chicheportiche, Steven Ezra, Amanda Hulen, Catherine Jaeger, Jason Williams. In conclusione arte del corpo ma soprattutto gioco, inteso nel senso più alto, come ha specificato l’artefice di tutto, Moses Pendleton. Una pausa per accumulare energia, necessaria in questo momento storico di “darkness”, oscurità. Sì Moses, hai perfettamente ragione.
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