“Progetti di delirio” di Patelli e Mancini
di Cinzia Baldazzi.
Al Teatro degli Audaci di Roma, nell’ampia sala dal palco profondo, aspetto nel buio complice le luci di inizio di Progetti di delirio, testo composto da Alberto Patelli intrecciato ad alcune liriche di Angelo Mancini. In scena lo stesso Patelli (anche regista), Corrado Bega e Francesca Cama, con la partecipazione di Tony Fusaro e del giovanissimo Alessandro Stufera: lo spettacolo è frutto composito dell’incontro dialettico tra la parola lirica del poeta e di un piano referenziale creato per collocarsi tra le quinte, in una coinvolgente esibizione.
“Poesia in teatro”, dunque. Eppure, mentre attendo nella sala affollata, giunta per l’inaugurazione della stagione teatrale 2018-19, penso e ripenso: ma se voglio ascoltare dei versi, perché assistere a una specifica mise-en-scène e non a un emozionante e classico récital magari a più voci? La risposta è nella matrice ispirativa e riflessiva che ha guidato gli autori e collaboratori dell’opera, coincidendo con la struttura semantica espressiva dello spettacolo, particolarmente multimediale. Per suggerire, a quanti spero potranno seguirlo nelle successive repliche, un’utile chiave semantica di accesso, propongo di ascoltare il consiglio esegetico formulato dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. Misterioso è il meccanismo in atto in «una persona, quando pensa o prova una sensazione», allorché «tendiamo a raffigurarci un mondo interno. Ma dove? Nella testa? Nel cervello? E quali sono i suoi contenuti? Pensieri? Sentimenti e desideri?». La conclusione è: «Nel cervello non si trovano né pensieri né sentimenti».
In platea, a luci ancora accese e sipario chiuso, l’uomo di strada (Tony Fusaro) è dinanzi a noi: quasi fosse una pirandelliana creatura-personaggio proveniente da un microcosmo di false apparenze, per tranquillizzare chi lo ascolta che non sarà necessario, durante la performance, decidere sul vero e sul falso. Non appena l’attenzione è richiamata sulla fotografia sbiadita di un vecchio paese, avverto l’impressione inquietante e insolita di aprire e scorrere le pagine di un libro di figure, in grado, però, non di mostrarsi per noi (règle du théâtre). Al contrario, in un’atmosfera di sospensione abbastanza impegnativa, sono in attesa che le nostre impressioni le esortino a manifestarsi evocandole: ed ecco il carretto, il somaro, le donne, il campanile, la chiesetta.
Fino a qual punto la scena vuole apparire reale, pur nell’evidente matrice immaginaria? Sento anch’io l’impulso di vivere “dentro” quella foto, e non in una metropoli caotica. Il problema, confermerà poco dopo il viaggiatore (una sorta di flâneur baudelairiano rivisto e corretto), non è comunque l’ossessionante ordinario traffico, piuttosto il non trovare «parcheggi per il mio disorientamento».
Il nostro non-eroe si allontana da dove era venuto, mentre lo sguardo è presto ricondotto lì, sul pesante tendaggio rosso, da dove sbuca una ragazza in vestaglia bianca. È una giovane abbastanza florida per le scene, ma il realismo del corpo tonico e delle curve morbide, invece di stupire, cattura lo sguardo con realistica ed elegante naturalezza. L’abilissima Francesca Cama si muove flessuosa e acrobatica sulla ribalta, nel silenzio generale, consumando un intervallo spazio-temporale difficile da misurare: non si sa da dove arrivi, né dove sia diretta.
L’impianto ideativo della mise-en-scène, e delle poesie di Mancini come suoi veicoli d’eccezione, è basato su quanto i costumi-valori predominanti oggi nelle società consumistiche occidentali siano diametralmente opposti all’immaginaria comunità dell’immediato. Sul lato sinistro, la figura di un ragazzino chino sul banco a scrivere cede il posto all’Uomo in trench (Corrado Bega), quasi fosse gettato a forza al centro del palco, accompagnato da una musica divenuta incalzante, nevrotica, mescolata a rumori di traffico, sirene di ambulanze, squilli di cellulari: nell’inferno di cemento e lamiera, nel girone impazzito delle sonorità assordanti e sgradevoli, l’unico rumore “molesto” è quello dei versi poetici.
Il monologo dell’attore Corrado Bega è di alta dignità attoriale, con una tecnica esperta, addestrato a sostenere apnee di respiro per lunghi periodi allo scopo di mantenere la drammaticità serrata del testo: quasi fosse un input liberamente vissuto della tradizione del celeberrimo Actors Studio di New York, cui però si aggiunge un flusso ininterrotto di avanguardistica memoria. In Progetti di delirio appare attualissima una riscrittura originale dei continuum testuali e iconografici lasciati in eredità dal Gruppo 63 (da Manganelli a Celati, da Balestrini a Giuliani) fino ai fautori della scomposizione del linguaggio pubblicitario (uno su tutti: Lamberto Pignotti). Si susseguono, così, l’inevitabile richiamo a Pier Paolo Pasolini, in un lungo e crudo monologo di Bega sulla fine del poeta, e la rimodulazione cronachistica dello psicodramma più grande del nostro dopoguerra: il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in una stradina del centro storico di Roma.
Ma per ora il fondale richiama il rumore dolce del mare e il lieve sciabordio della risacca. Spiagge pulite, cielo limpido e sole prepotente, una trattoria solitaria, simile a un miraggio: è l’allestimento di un ricordo, nel segno dello svanire del vincolo coniugale, in una fuga forse gioiosa, di certo nutrita di libertà, conclusa da un banchetto pantagruelico immateriale, sognante, infinito, di pura immaginazione.
«Dunque lei… è un poeta…», chiede l’oste: «Diciamo che sono l’amico di un poeta…», è la risposta dell’avventore. L’Uomo si alza, lascia il tavolino, conquista il centro del palco e “porge” i versi di Mancini: «Solo un poeta / che troppo sente. / Solo un poeta, / forse, son io».
Nel finale, l’Uomo e il ragazzo si avviano verso il fondo. Il finale di Progetti di delirio di Patelli e Mancini conduce in un tramonto, naturale e umanissimo, nel momento stesso in cui auspica e promuove un’alba a venire, una rinascita.
Progetti di delirio
testo e regia di Alberto Patelli
liriche di Angelo Mancini
con Corrado Bega (l’Uomo), Alberto Patelli (l’oste), Francesca Cama (la danzatrice), Alessandro Stufera (il ragazzino), Tony Fusaro (l’uomo di strada), Edgardo Prosperi (voice over)
organizzazione generale Alessandro Cialli, musiche Davide Di Francescantonio, direttore di scena Primo Mancini, fonia e luci Saverio de Iorio, animazione video Rocco Lotito
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