I Milagro Acustico al Baobab
Proprio la cornice adatta quel vasto salone del Baobab con gli archi moreschi dipinti sulle pareti e l’odore di spezie, odore di Islam che ben si adatta al percorso musicale dei Milagro Acustico, il cui cuore pulsante è la Sicilia. Siqilliya, l’isola che, dopo la sconfitta bizantina, fu emirato arabo per due secoli, conoscendo un periodo di prosperità economica e culturale.
E tolleranza, dacché le tre religioni del comune ceppo abramitico vivevano fianco a fianco in pace, senza fanatismi di sorta. E’ la Trinacria Felix che ben descrive lo storico Michele Amari in saggi fondamentali come “Biblioteca Arabo-Sicula” e “Storia dei Musulmani in Sicilia”. Poi ci fu l’invasione normanna, Federico II deportò gli arabi a Lucera, le comunità si dispersero ed iniziò la diaspora celebrata da poeti come Ibn-Hamdis ed altri.
La nostalgia, il rimpianto della terra perduta, questo il tema ricorrente e questo anche il filo che lega i brani dell’ultimo lavoro dei Milagro Acustico, “Sicilia araba”, il canto del ricordo, la malinconia dell’esule per la terra perduta. E già essa traspare nel primo brano “Assalamu Alaikum”, con le sue morbide cadenze vocali-strumentali, impreziosite da spruzzate di sax. E poi si sviluppa nel successivo “Dhakartu Siqilliyata”, che parla del paradiso perduto, dove i nuovi padroni venuti dal Nord stavano cancellando la memoria della precedente dominazione (che pure aveva razionalizzato l’economia isolana: dall’abolizione del latifondo alle opere idrauliche).
E’ un canto accorato che si dispiega a tratti sinuoso come le tipiche melopee arabe, a tratti più compatto, voce e strumenti all’unisono, talora affidandosi anche alla gestualità della danza, quasi per dare connotati fisici alla nostalgia.
“Balarm”, la Palermo islamica che era una delle città più belle del bacino mediterraneo (“La più eccelsa metropoli del mondo”, Idrisi, geografo arabo), ma l’evocazione sul filo del ricordo d’amore coinvolge anche Trapani, Noto, Favara. Amore, sì, è un lungo e sommesso canto d’amore per un mondo che sta scomparendo e di cui resta un’immagine sempre più sbiadita. “Ammiro questo luogo che Allah ha colmato d’abbondanza”, scriveva Abd al rhaman, e il pregio dei Milagro è stato di interpretare quel passato di prosperità esprimendolo nella densità del loro messaggio musicale. In effetti brani come “Yalla Harreck” o “Wadaan” dànno proprio il senso di una pienezza che viene poi confermata da pezzi ormai classici del repertorio Milago, quali “Ianchi capiddi”, “L’acqua duce”, “Lu sposaliziu”. E il pienone di spettatori al Baobab ha confermato ancora una volta la qualità del “sound mediterraneo” del gruppo ma, soprattutto, la scelta di Bob Salmieri di “creare una rete di musicisti per stabilire un comune senso di appartenenza”.
I nomi. Marwan Samer, voce, oud, Andrea Pullone, chitarra classica, oud, Maurizio Perrone, doppio basso, Maurizio Catania, batteria, percussioni, Helia Bandeh, danza. E Bob Salmieri, ovviamente, ney, baglama, tambur, sax soprano, clarinetto percussioni. Un brillante mix di strumentazione tradizionale di derivazione islamica impreziosita dal canto arabo di Samer ed inflessioni jazz, con quel gusto di “world music” colta che è lo specifico dei Milagro Acustico. E il segreto del loro successo.
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Musica delle radici al Baobab
E’ purtroppo un dato di fatto, sconsolante ma reale, che i Centri di Accoglienza per Rifugiati e Richiedenti Asilo in Italia sono tutto salvo quello che dovrebbero essere, cioè un punto di aggregazione ed integrazione. Burocrazia e intoppi vari, ma soprattutto burocrazia, rendono i Centri una sorta di non-luoghi dove l’esule spende il suo tempo totalmente estraneo al territorio che lo dovrebbe accogliere.
E si crea da subito una cesura che comporterà poi un difetto di comunicazione, da un lato il migrante che non riuscirà ad inserirsi e dall’altro la popolazione locale che lo percepirà come un intruso.
Quindi una situazione come quella esistente da pochi anni nei pressi della stazione Tiburtina non può che suscitare interesse, essendo positivamente anomala rispetto alla regola. Un interesse direi antropologico, perché il Baobab è un attivo centro policulturale dove avviene un reale scambio interetnico a più livelli. In questa razionale struttura di oltre 1000 mq. sorta nel 2004, trasformando capannoni in disuso di proprietà del Comune, oltre al centro di accoglienza vero e proprio, dotato di camere adeguate, figurano il bar-ristorante, il negozio etnico, la palestra, la sala convegni, la biblioteca ed altri servizi tutti autogestiti. Un progetto che fa capo all’Associazione Erythros, nata nel ’93, come gruppo d’intervento in favore dell’Eritrea.
Perfettamente inserito nel quartiere il Baobab è diventato una sorta di laboratorio dove non solo si sperimenta dal vivo l’integrazione ma si produce cultura, nel segno della commistione etnica. In un certo senso è un ritorno alle origini, perché il bacino del Mediterraneo è la culla del meticciato, a cominciare dal nostro paese, che nel suo complesso Dna ha germi di cultura islamica (la Sicilia araba). E che dire della Spagna dei califfati, Al-Andalus? Così nel grande salone, alle feste di compleanno o di laurea, si alternano interventi di gruppi che fanno “world music”, i quali possono qui produrre in proprio (come ad esempio “Nafike”, di Selam Yemane, la tradizione eritrea in chiave di “world music”). V’è infatti una sala di registrazione, che si affianca ai laboratori quotidiani di danza, teatro ed altro né viene trascurato il cinema, con proiezioni periodiche.
Insomma in questo spazio strappato al degrado giorno dopo giorno si costruisce una nuova identità interetnica che non è passata inosservata (il comune di Francoforte l’ha presa modello per un’esperienza sul territorio). Ne è giustamente orgoglioso Daniel Zagghay, il dinamico responsabile del centro nonché animatore delle tante iniziative culturali.
Ed una di queste, molto stimolante, parte venerdì 14 marzo, il “Cultural Bridge Festival”, la Musica delle Radici, dieci appuntamenti con cadenza settimanale, fino a maggio. Iniziano dei vecchi amici, i Milagro Acustico di Bob Salmieri (“Sicilia araba”, ultimo cd), che, di concerto con il centro, hanno promosso la manifestazione “al fine di salvaguardare il patrimonio culturale immateriale dal preoccupante rischio di estinzione a cui è costantemente sottoposto”. Ed in quest’ottica di recupero della memoria e, in parallelo, di rilettura nei moduli della “world music”, si collocano gli altri gruppi che animano il Festival.
Così i Flamenco Tango Neapolis, un suggestivo mix di sound partenopeo e colore argentino (21 marzo), Algesiras – Las olas del tiempo, dialogo fra flamenco e musica maghrebina (28 marzo), Unavantaluna – Isula ranni, la Sicilia come ombelico del Mediterraneo (4 aprile), Fleurs do Mar, un percorso melodico a livello europeo (11 aprile), Agharti – Il suono delle origini, il meticciato come esperienza musicale (18 aprile), Neilos – Transumanza, il profondo Sud in chiave etno-rock (9 maggio), Klezmer Night con il Gabriele Coen Quartet, il repertorio popolare ebraico (16 maggio), Mediterranti, il sound mediterraneo come ricerca di un’identità comune (23 maggio). Chiudono Entropia & Bob Salmieri – Radio Samarcanda, un interessante mix di sonorità acustiche e digitali, ovvero il passato ed il presente, quasi una metafora di ciò che deve essere il bacino mediterraneo, affrontare il futuro preservando la memoria di ciò che è stato. Il Mare Nostrum, appunto.
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