Ministri e lauree
Può un non laureato fare il ministro della Giustizia? Questa è la domanda che ci si potrebbe porre scorrendo il curriculum di Andrea Orlando, esponente «garantista» del Pd, recentemente approdato in un dicastero chiave ai danni, si dice, di Nicola Gratteri, famoso magistrato antimafia.
La risposta per noi sarebbe chiara: nell’ambito di una valutazione complessiva della persona, più che dei soli pezzi di carta conseguiti, ci potrebbe anche stare che un non laureato ricopra una posizione di simile responsabilità; cosa tanto più vera per un esponente democrat come Orlando, che solo ora, a 45 anni, approda, dopo una lunga trafila da dirigente di partito, a una poltrona politicamente fondamentale per il mantenimento dei difficili equilibri su cui si regge il nuovo esecutivo di Matteo Renzi.
Un uomo di «apparato», si sarebbe detto in altri tempi: un apparatcik, quando la Russia andava ancora di moda.
Orlando ha già dimostrato in tempi non sospetti una certa dose di coraggio, quando nel 2010 espose, in una lettera inviata al Foglio di Giuliano Ferrara, cinque proposte di riforma della giustizia; erano tempi duri per un Pd all’opposizione, in netta minoranza nel Paese, accusato, tanto per cambiare, di voler inciuciare con Berlusconi e l’allora guardasigilli Alfano. Una lettera di appena tre anni fa che sembra giungere da qualche lontana era geologica, considerato che i tanti protagonisti di quel dibattito – Antonio Di Pietro in primis – sono letteralmente scomparsi dalla scena politica.
Andrea Orlando parlava di riorganizzazione degli uffici giudiziari, evidenziava la necessità di «diluire» l’influenza delle correnti all’interno del Csm, osava discutere il dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale (feticcio intoccabile per una certa sinistra manettara) che forse si pone in un qualche rapporto di causalità con la lentezza del nostro processo penale; tutti temi che fecero pervenire al nostro le puntuali rampogne del severo Bruno Tinti, ex magistrato e influente blogger del Fatto Quotidiano. Nulla di cui stupirsi: erano proposte da migliorista e non è un caso che il nome di Orlando sia risultato gradito al presidente Napolitano.
In un contesto di equilibri politici a geometria variabile, com’è obiettivamente quello nel quale nasce il governo Renzi, un ministro come Orlando, può svolgere un ruolo importante, a patto che realizzi qualcosa di quell’ambizioso progetto esibito sulle pagine del Foglio quando era all’opposizione. Una poltrona, quella da Ministro di Grazia e Giustizia, che sembra consigliare a chiunque pacifiche convivenze con i destinatari di riforme attese da decenni, sempre annunciate in dibattiti pubblici e appassionate interviste.
Insomma, se nessuno crocifigge Orlando per i suoi studi è però qui interessante constatare lo strabismo etico di chi, soltanto qualche mese fa, sparava, non certo a salve, sulla ministra Lorenzin (ex berlusconiana poi approdata nel Ncd di Alfano) rea di avere lo stesso problema del suo collega alla Giustizia, cioè la sola maturità liceale.
Poteva la Lorenzin, con un diploma di liceo classico, sedere sulla poltrona di un ministero come quello della Salute? No, era la risposta sdegnata di quasi tutti: se per fare l’infermiera/e bisogna avere una laurea triennale, non è accettabile che il titolare del dicastero della Sanità abbia soltanto il diploma.
Naturalmente simili contestazioni venivano mosse soltanto alla Lorenzin, in quanto donna e (allora) berlusconiana: o almeno così si sarebbe autorizzati a pensare, dato che nello stesso governo trovava posto un certo Zanonato, privo di laurea ma ministro dello Sviluppo Economico, mai sfiorato da alcuna critica.
Una campagna mediatica bene orchestrata sui social network e capace di far molto male alla credibilità della ministra soprattutto in un momento di aspra contrapposizione come quello relativo alla vicenda Stamina.
Possiamo forse dire che la Lorenzin sia stata peggiore dei suoi predecessori? I fatti ci suggeriscono di no, semplicemente perché alla fine, a «comandare» dentro i ministeri sono i tecnici veri, gli inamovibili burocrati non sottoposti ad alcun mandato elettorale, capaci di decretare il successo, più spesso l’insuccesso, degli spaesati ministri che si succedono nei vari dicasteri. Esattamente come ai tempi del volenteroso Corrado Passera che, fresco di nomina al ministero dello Sviluppo Economico, venne subito ribattezzato «Passerà».
Una definizione, col senno del poi, rivelatasi davvero profetica.
Fonte: Nicola Ventura (The Front Page)
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