Max Peiffer Watenphul, pittore
Max Peiffer Watenphul, pittore
di Antonio Mazza
“Io ora vivo qui in una serenità e in una quiete di spirito che non provavo da lungo tempo”. Così scriveva Goethe appena giunto a Roma, dove si era sistemato nell’appartamento di Via del Corso, la Città Eterna quale mèta ideale del suo “Italienische Rheise”, Viaggio in Italia (“Sì, sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo!”). Lui e l’amico Tischbein vivono le giornate romane dense di eventi, non solo girando la città per ammirarne i monumenti, ma anche semplicemente passeggiando per le strade fra la gente. Oppure in casa a lavorare, Goethe scrivendo o dedicandosi alla botanica, Tischbein usando il pennello, entrambi sedotti dal fascino di una città dove l’ombra della Storia è ovunque. E qui, al primo piano di Via del Corso n.18, il viaggiatore Wolfgang Goethe ha lasciato una cospicua testimonianza del suo soggiorno. Taccuini, lettere, appunti (fra questi una nota di spese degli osti romani), schizzi, studi di botanica, scritti (il testo di “Elegie Romane”). Una mostra permanente arricchita da quadri e disegni di artisti tedeschi e italiani, Hackert, Piranesi, Catel,naturalmente Tischbein (che lo ritrae affacciato alla finestra mentre assiste al carnevale romano) e tanti altri, fino a Wharol. E’ ancora intatto, d’epoca, il soffitto della sua camera da letto, il centro ideale della casa che ora, unico museo tedesco all’estero, è un centro culturale con una sua ricca collezione artistica, una biblioteca, una sala per eventi e spazi dove si ospitano mostre temporanee. Come “Max Peiffer Watenphul. Dal Bauhaus all’Italia”, a cura di Gregor H.Lersch, direttore del Museo (generoso sponsor l’Impresa Pasqualucci Costruzioni).
Nato nel 1896 a Weferlingen, in Sassonia, di famiglia borghese, Max scopre giovanissimo l’amore per l’arte, dipinge da autodidatta e ammira Paul Klee ma è solo dopo la prima guerra mondiale che si applica, iscrivendosi alla scuola del Bauhaus. E’ il periodo tumultuoso e denso di fermenti artistici della Repubblica di Weimar, il cinema e la pittura espressionista, l’architettura del Bauhaus, la musica atonale, un periodo che viene bruscamente troncato nel 1933, quando Hitler sale al potere. Così anche Max Peiffer Watenphul che, nel corso degli anni, ha sviluppato la sua arte, raffinandola grazie anche ai viaggi all’estero ed ottenendo numerosi riconoscimenti (Premio di Villa Massimo, 1931, Roma, Premio della Akademie der Kunste, 1932, Berlino), vede le sue opere esposte nella mostra della “Entartete Kunst”, Arte degenerata. E’ dopo la guerra che inizia il suo periodo aureo, prima a Venezia, dove diventa amico della mecenate e collezionista Peggy Guggeheinm, poi in Germania e in Italia, cimentandosi anche con il genere della litografia. Vengono organizzate con successo diverse sue personali, continua a viaggiare (ha un atelier a Roma) e, nel 1964, viene chiamato come successore di Oskar Kokoschka all’Accademia internazionale estiva di arti figurative di Salisburgo. Nel ’65 è membro ordinario dell’Accademia Bavarese delle belle Arti di Monaco e nel ’69 riceve la Gran Croce al merito della Repubblica Federale Tedesca. Dal 1976 riposa nel cimitero acattolico di Roma.
Ed eccolo il giovane Max protagonista di “Autoritratto con poesia” (1919), dove la componente espressionista, con la resa quasi geometrica della figura, stempera in tonalità un po’ fiabesche (la colomba che regge il cartiglio). Componente espressionista peraltro più evidente in “Madre dell’artista con tulipani” (1921), ma anche qui traspare un certo afflato lirico, sia pur velato di profonda malinconia. Ed altrettanto si può dire di “Parco a Weimar” (1921), dove il colore, con la sua accentuazione cupa, esprime tutto uno stato d’animo. Più, diciamo così, solari i due ritratti femminili: “Donna con cappello di paglia” (1922) e “Giovane donna con cappello di piume” (1922), dove si avverte una vaga reminiscenza dei moduli di Paul Klee, pittore che Max ammirava (Max che, insieme all’amico Richard Parrisius, ritroviamo in un fine acquerello del 1926 di un esponente di spicco della “Neue Sachlickeit”, Nuova Oggettività, Otto Dix, che raffigurò gli orrori della prima guerra mondiale). Negli anni si rafforza la sua vena poetica, soprattutto nei vari soggiorni in Italia, dove la luce permea l’impasto cromatico, “Case a Ischia”, 1937, “Ischia, vista su Capri”, 1938, o ha il sapore del Mito, “Roma, veduta di Porta del Popolo”, 1928, “Villa Massimo a Roma”, 1934, Mito che traspare con maggiore evidenza nella serie di fotografie romane, 1932.
L’obbiettivo, sin dagli inizi, era di creare come un substrato spirituale alla sua opera, concetto che s’incarna nelle splendide vedute veneziane degli ’40-’50, dove la pittura si sgrana in un balenìo di riflessi (quel tipico chiarore della laguna veneta) e tutto appare sospeso nell’eternità di un attimo unico. Vedi “San Marco”, 1947, “Cà Foscari”, 1949, “Cà d’Oro”, 1949, ma soprattutto “Palazzo Dario”, 1950, il più denso e, per certi versi, inquietante. E ancora l’Italia, Roma e Venezia, i punti fermi della ricerca pittorica di Max Peiffer, con le rappresentazioni del paesaggio urbano più marcate , dalle tonalità quasi notturne E’ il caso di “Colonne romane”, 1960, “Venezia, vista dalla piazzetta su San Giorgio”, 1960, “Piramide Cestia”, 1963, “Sul Campidoglio a Roma”, 1967, mentre altre tele degli stessi anni, di soggetto diverso, accolgono un’impronta di luce: “Mazzo di fiori”, 1966, “Suleika”, 1966, “Paesaggio persiano”, 1966, “Giardino in Persia”, 1966. Toni differenziati e solo in apparenza contrastanti che caratterizzano l’arte di questo pittore che la nipote, Diana Pasqualucci, ricorda come “un gran signore”. Ma, soprattutto, un poeta.
Casa di Goethe, “Max Peiffer Watenphul. Dal Bauhaus all’Italia”, fino al 10 marzo 2024. Da martedì a domenica h.10-18, biglietto euro 6 intero ridotto 5. Da citare il bel catalogo a cura di Gregor H.Lersch, Frédéric Bussmann, Anja Richter.
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