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Manzù e Fontana, arte e spiritualità

02  Qual è il senso dell’arte, il suo intimo segreto oltre il puro gesto che conduce alla contemplazione della Bellezza? E’ indubbiamente la ricerca di un assoluto, il perseguire qualcosa sincronicamente dentro e fuori di chi crea, un orizzonte che dilata di continuo: una realtà prismatica dove il gesto in sé assume una connotazione quasi sacrale. Chiamiamola pure trascendenza, anche se non necessariamente questa comporta la richiesta e l’accettazione di un “oltre”, restando in un’àmbito squisitamente laico. Ma ciò non toglie che il processo artistico sia comunque un evento eccezionale, fuori la norma, a prescindere da un atteggiamento più o meno fideistico.

  E proprio di trascendenza si deve parlare visitando le mostre in contemporanea a Castel Sant’Angelo e Ardea, “Manzù. Daialoghi sulla spiritualità, con Lucio Fontana”. Due grandi artisti italiani del ‘900 in un confronto che non è solo stilistico ma appunto dialettico, di linguaggio del profondo: la loro comune tensione meditativa che se per Manzù si traduce in un’accettazione, dunque credere, per Fontana si pone più in termini filosofici, di immanentismo. Ma per entrambi resta importante la valenza del sacro, che qui, nelle due sedi, viene riproposta con l’esposizione in particolare delle committenze del Vaticano (Manzù) e dei rapporti con la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano (Fontana). E il confronto che ne risulta è di grande suggestione.

  Già la prima opera di Manzù, un “Crocifisso” in bronzo, dalle forme classiche, michelangiolesche, introduce alla sua religiosità. Che è serena ma, negli anni della guerra, si drammatizza e se all’inizio le sue “Crocifissioni” provocano commenti poco lusinghieri, sono anzi quasi in odore di eresia, con opere come “Deposizione” o “Cristo con generale” e “Crocifissione con soldato” si comprende il senso del suo messaggio, che appare filtrato dal dramma collettivo (l’Europa devastata dalla follia hitleriana, la violenza nazista, la Shoah: non a caso il generale ed il soldato dei bronzi su citati hanno l’elmetto tedesco). E dopo la guerra il discorso dell’arte sacra, che Manzù sviluppa in una serie di bronzi spesso su committenza vaticana, divenendo amico di un grande papa, Giovanni XXIII (e qui è il bronzo “Morte di papa Giovanni XXIII”). Ma anche di papa Montini, Pio VI, sotto il cui pontificato termina ed inaugura la Porta della Morte nell’atrio della Basilica di San Pietro iniziata una diecina d’anni prima.

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  Il tema sacro viene sviluppato in modo corale e a soggetto singolo e sono i gruppi plastici che rimandano alle “passio” cinquecentesche, “Stazione Via Crucis Deposizione di Cristo”, “Deposizione di Cristo”, “Morte di Cristo” ed alla nota serie degli alti prelati. “Il Cardinal Lercaro”, che fu uno dei padri conciliari (il Vaticano II), “Cardinale”, “Cardinale seduto” e quella sorta di monolito che è “Grande Cardinale”. Figure ieratiche, raccolte, dal fascino raggelato, che esprimono l’autorità ed il magistero della Chiesa e se in esse non traspare la “pietas” di Manzù questa riaffiora in lavori come “Cristo con la Maddalena”, “Morte per violenza”, “Maria e Giovanni”, “Cristo deposto” (queste due realizzate per la Cappella della Pace in Vaticano).

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  Ma il percorso di Manzù è anche costellato di opere assolutamente laiche, quali l’elegante “Grande ritratto di Signora” e la gran parte della raccolta del Museo di Ardea. E qui è anche Lucio Fontana, il cui modo d’intendere la spiritualità è una vera sorpresa per quanti hanno di lui una conoscenza limitata ai famosi “tagli” nella tela. I suoi bronzi e le sue ceramiche catturano immediatamente l’attenzione per quel loro dinamismo squisitamente materico, come traspare soprattutto dai bronzi, vedi “Il cardinal Schuster tra le vittime del bombardamento”. E’ un’opera notevole, di forte drammaticità, con le figure che balzano fuori del contesto, in una sorta di violenza plastica che rimanda alle figurazioni del “Compianto” rinascimentale (in particolare Niccolò dell’Arca, il “Compianto sul Cristo morto” di Bologna). In comune v’è anche un dolore atrocemente umano ed una “pietas” che travalica il dolore stesso e diventa atto sacro (la donna col bambino morto, l’accorrere del prelato).

  Giunto dopo la guerra in Italia dall’Argentina dove era nato, a Rosario, Lucio Fontana partecipa al concorso indetto dalla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano per la V porta del Duomo stesso. I suoi bozzetti in bronzo ripercorrono la storia del complesso sacro narrandolo in fasce parallele dove si affollano le figure, creando come un’efflorescenza che evoca un’immagine magmatica, di concrezioni laviche. Il moto continuo, questo il cardine dell’agire di Fontana, fondatore del “Movimento Spazialista” (già sul finire degli anni ’40 teorizzato da lui a Buenos Aires). Ma se sulla tela questo si traduce in un gesto provocatorio, quando si usano materie diverse è tutta un’altra storia.

  Bronzetti come “Frate che scrive” o  “Un nobile” ma anche il gesso di “Un cavaliere” parlano di una ricerca non solo plastica, per quell’inquietudine che ne traspare. E la ritroviamo in una serie di ceramiche policrome, “Crocifisso”, “Cristo sulla Croce”, “Crocifissione”, dove la materia tende talora a sfaldarsi (“Resurrezione”) per meglio esprimere un anelito verso un’interiorità che si avverte oltre la materia stessa. E così per i disegni relativi agli studi per cappelle funebri o di istituti religiosi (Tomba Melandri, le Carline di Milano) o, ancora, pale d’altare, come quella dedicata a Santa Margherita Alacoque. L’opera finita si trova nella meneghina San Fedele dove Fontana realizzò anche un’intensa Via Crucis in terracotta e l’una e l’altra testimoniano della sua collaborazione con i gesuiti (era grande amico di padre Angelo Favaro). La sua spiritualità era questa, diversa nei modi da quella di Manzù, più esplicita, di credente, ma non perciò meno profonda. Una visione, come dicevo all’inizio, più filosofica, di sapore immanentista.

  Due personalità e, soprattutto, due anime a confronto. D’intonazione quasi classica Manzù, con echi donatelliani (vedi il “David”), più impostato su turgori rinascimentali Fontana, ma entrambi accomunati da una ricerca che li proietta oltre le apparenze, in un orizzonte lontano. E il tema del sacro come viene vissuto da prospettive diverse si può sintetizzare simbolicamente qui, nello splendido Museo Manzù di Ardea, in un delicato alabastro, “Bambina che gioca”, nell’innocenza del suo sguardo. Perché il Sacro “è” innocenza.

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“Manzù. Dialoghi sulla spiritualità, con Lucio Fontana” al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo e Museo Manzù di Ardea. Fino al 5 marzo 2017, tutti i giorni h.9-19,30. Biglietti: Sant’Angelo euro 13 intero, 6,50 ridotto, Museo Manzù gratuito. Per informazioni 0632810, www.gebart.it, www.polomusealelazio.beniculturali.it  e www.mostramanzu.it

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