Indubbiamente, entrati nel vasto salone della Galleria Borghese, la prima impressione è fra perplesso e stupito, nell’osservare il contrasto fra l’impianto barocco dell’insieme e le sculture in bronzo poste nel mezzo. Che rapporto c’è, ti chiedi subito, fra di esse ed il contesto, dai busti marmorei del Della Porta alle allegorie del soffitto? Poi, gradualmente, vieni avvolto dal fascino di quelle sculture, dal loro arcaismo, da quel configurarsi come una sorta di moduli archetipici, e cominci a comprendere il senso di una mostra di certo anomala ma, proprio per questo, stimolante. La mostra di Giacometti ospitata nella Galleria Borghese offre non pochi spunti di riflessione, al cui centro è la condizione umana.
Non si procede in senso cronologico, come in genere avviene, documentando così l’evoluzione dell’artista, bensì direi quasi per scansioni emozionali, ogni sala rivelandosi come un contenitore dove dialogano passato e presente. E ciò avviene nel segno del contrasto, come dimostrano le grandi sculture realizzate nel 1960 per la Chase Manhattan Plaza di New York, dove il concetto di spazialità racchiude in sé il rapporto dell’essere con il reale. Anzi, lo esprime, perché opere come “Grande femme” e “Homme qui marche”, nella loro tensione stilizzata, la figura filiforme proiettata in alto, dànno il senso di un sofferto epos esistenziale. E’ il male di vivere che da sempre fa da controcanto al nostro quotidiano e che l’arte cerca di esorcizzare e così Giacometti nel corso di tutta la sua esperienza che alterna astratto e figurativo. E la lezione cubista, naturalmente, appresa negli anni di gioventù (nasce nel 1901 in Svizzera), vedi la “Femme couchée qui reve”, la cui sinuosa plasticità appare in antitesi con quella classica, di limpida struttura della Paolina Borghese. Subentra qui l’elemento del moto che assume un significato preciso nel successivo confronto fra il David berniniano e “L’homme qui chavire” e trova la sua consacrazione nell’Apollo e Dafni circondato dal gruppo delle “Femmes de Venise” e le “Grandes Femmes”. E ne deriva come un senso di straniamento nel confrontare il vitalismo del Barocco in rapporto alla staticità giacomettiana che, però, è solo apparente, l’elemento fisico appare anch’esso ben delineato in uno spazio preciso ma diverso ne è il significato. Lì il trionfo del corpo, il suo esplodere dopo una lunga clausura (pensiamo alla figura umana nell’arte fino alle soglie del ‘500), qui invece è tutto più incerto ed enigmatico. E si avverte una fragilità di fondo, che esprime la solitudine dell’essere approdato ad un’epoca senza certezze, il ‘900, devastato da due guerre (“La Main”, emblematica della frantumazione dell’io sociale).
Solitudine come condizione esistenziale, l’uomo in cammino verso una mèta ignota, perché l’universo intorno a lui gli è diventato ostile. “Homme qui marche”, simbolicamente raffrontato alla statua di Enea con il padre Anchise ed il figlio Ascanio, del Bernini, dà tutto il senso di esilio in un mondo ignoto.
E se pure, nella problematica giacomettiana, affiorano a tratti momenti che evocano ritualità primitive (“L’Object invisible”, con evidenti richiami alla cultura africana), il nucleo primario resta l’uomo come un punto in perenne movimento nella vastità cosmica (fino all’identificazione, poiché “Mois me hatant dans une rue sous la pluie” è lui, l’uomo-Giacometti e il suo destino). Dunque arte concettuale, che trapassa per varie fasi, cubismo, surrealismo, ma anche suggestioni dell’antica arte mediterranea (dalla cicladica in“Tete qui regarde” all’egizia in “Femme qui marche”. E come non pensare ai bronzetti etruschi – vedi “L’ombra della sera” di Volterra – o alle statuine nuragiche?). “La capacità della sua grafia di indagare la profondità vitale della figura umana, scavandone l’anima fino a sconvolgerne e disseccarne la volumetria esteriore nel sentimento tragico dell’esistenza”, scrive nella presentazione Anna Coliva, Direttrice della Galleria Borghese. E’ proprio così, nella intensità plastica, in quel quasi ossessivo rimpastare la figura, come nelle ultime opere, “Buste d’Annette” o “Lothar III”, è la linfa della sua arte. Ma Giacometti è anche pittore e voglio concludere con “Roma”, un delicato acquerello realizzato durante il suo viaggio in Italia, ad inizio degli anni ’20, omaggio non solo alla nostra città ma a tutta una cultura che egli amava profondamente.
“Giacometti – La scultura”, Galleria Borghese, fino al 25 maggio. Da martedì a domenica h.9-19,
prenotazione obbligatoria. Biglietto euro 16, ridotto 11,50. Per informazioni www.galleriaborghese.it
Scritto da: Antonio Mazzain data: 9 febbraio 2014.il9 giugno 2014.
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