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L’ira di Giuditta

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                                                    L’ira di Giuditta

di Antonio Mazza

  Nella storia della pittura sono frequenti i classici “topoi”, temi ripetuti e sviluppati in vari modi, soprattutto quelli biblici, con risultati spesso notevoli, talora fino al conseguimento del capolavoro. E questo può anche diventare l’archetipo di tutto un filone che si snoda nel corso del tempo con una vasta gamma di variazioni su tema, dal mediocre al sublime, una continua e stimolante ricerca stilistica quale comun denominatore. Il modello di base diventa così una sorta di work in progress dal punto di vista del linguaggio, che tende a non ripetersi ma punta all’innovazione e, di qui, essere punto di partenza per una inedita avventura artistica. E quando tema e segno coincidono può davvero significare il prototipo o archetipo che dir si voglia e nella Galleria di Palazzo Barberini se ne mostra uno, magnifico, di sapore biblico. Ovvero “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta”.

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  La giovane ebrea che salva il suo popolo uccidendo il generale Oloferne è uno dei quadri più famosi del XVI secolo, commissionato dal banchiere Ottavio Costa al Merisi e poi praticamente messo sotto chiave affinché nessuno lo potesse copiare. Era un’opera per quei tempi rivoluzionaria, la cui violenza di linguaggio pittorico espressa sia nella rappresentazione in sé, con quel brutale naturalismo narrativo, sia nella gamma cromatica, infrangeva gli schemi precedenti della pittura a carattere sacro, improntati ad una sorta di pietismo trionfalistico (eredità della controriforma tridentina). E ancora oggi desta ammirazione, un capolavoro posto al centro di una mostra di 31 opere che affrontano il tema di Giuditta dimostrando di aver ben appreso il “nuovo” presente nell’esperienza pittorica caravaggesca.

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  Ma ci sono dei precedenti di tutto rispetto nella prima sezione, “Giuditta tra maniera e natura”, in particolare uno sgargiante Tintoretto, dove, compiuta la sua missione, la giovane copre il corpo di Oloferne mentre Abra, l’ancella, sta per riporre la testa del generale in una bisaccia. La lussuosa camera da letto, i vestiti delle donne, il tappeto, l’armatura sul tavolo e, oltre la finestra, le tende assire sullo sfondo tutto è rappresentato con un minimalismo che colpisce l’attenzione (vedi il calice e la bottiglia sul tavolo). Pregno di quei morbidi umori tipici della scuola veneta è il quadro di Tintoretto (in basso: “Iacomo Tentoreto Fac.”) che forse più si avvicina ai toni del Veronese. Interessanti anche una tela di Lavinia Fontana (famosa  per i suoi ritratti) che mostra Giuditta dopo l’uccisione e quella di Pierfrancesco Foschi, allievo di Andrea del Sarto, che la sorprende nell’atto di colpire con la spada. Entrambe le opere sono di tono manierista.

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Nella seconda sezione “La Giuditta di Caravaggio e i suoi interpreti” è rappresentato il momento della decapitazione e, sulla scia dell’archetipo del Merisi, ecco la stessa scena rappresentata con alcune varianti che incidono sull’impatto emotivo dell’insieme. Così Louis Finson, una Giuditta corrusca e Abra, l’ancella, pronta a ricevere la testa di Oloferne (nell’originale Abra osserva inorridita), o Filippo Vitale, della Scuola napoletana, con quell’urlo di terrore fissato per sempre nella gola del generale nemico e le due donne assorte nella loro opera. O, ancora, il gioco di luci in Trophime Bigot, la violenza di Bartolomeo Mendozzi, il vigore compositivo di Giuseppe Vermiglio, con Giuditta e Abra che, mentre si compie il rito sacrificale, sembrano i dialogare fra loro, l’ancella rappresentata come una popolana.

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  Nella terza sessione, “Artemia Gentileschi e il teatro di Giuditta”, la variazione su tema riguarda soprattutto il ruolo di Abra, che partecipa in prima persona all’uccisione di Oloferne. Ed è la lucida ferocia del capolavoro di Artemisia, una consapevole determinazione che anima le due donne e si rispecchia nel sangue che cola abbondante dal letto di Oloferne. Ma c’è un’altra variazione su tema, peraltro riportata nel racconto biblico, “consegnò la testa alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri”. Tema sviluppato in due interessanti versioni dal padre Orazio, l’una con entrambe che si guardano intorno perplesse, l’altra sulla strada di Betùlia, Abra con la cesta (tema ripreso in modo più raffinato da Artemisia). Notevoli anche un’opera del Vermiglio, con una Giuditta che contempla il corpo mutilato di Oloferne (quanto mai caravaggesca la figura di Abra), la rappresentazione come un dramma che si svolge sul palcoscenico (le tende ai lati), di Guido Cagnacci, la pausa meditativa di Mattia Preti, con Giuditta che, compiuta la sua missione, guarda verso il cielo. E, tornando all’atto in sé, da citare il pittore caravaggesco attivo della prima metà del XVII secolo, tutta di colore e movimento.

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  Infine l’ultima sezione, “Giuditta e David, Giuditta e Salomè”, dove, per assonanza di temi biblici, si traccia una sorta di parallelismo pittorico confrontando opere di grande valenza espressiva. Così Valentin de Boulogne, con una Giuditta fiera che, la mano sulla spada e, sotto, la testa di Oloferne, indica l’alto, a significare lei come esecutrice di un mandato divino. Altro lavoro interessante di Valentino francese, come era soprannominato a Roma (dove forse fu allievo di Simone Vouet), è “David con la testa di Golia”, un trio di figure che esprime un che quasi di ferino (soprattutto quella centrale). Di una sobria ma incisiva eleganza la Giuditta di Cristofano Allori e su toni delicati “Salomè e la serva con la testa del Battista”, di Francesco Rustici che, negli effetti luministici, ricorda molto Gherard van Honthorst, meglio noto come Gherardo delle Notti. Ed è il quadro che conclude una mostra davvero singolare, dove protagonista è il caravaggismo quale corrente di linguaggio pittorico che, declinata in un soggetto archetipico, Giuditta e Oloferne, e sviluppata in un nucleo consistente di opere, disvela particolari molto intriganti, non solo in termini di stile, ma di contenuti. Perché il caravaggismo ha avuto soprattutto il merito di delinare i personaggi, conferendo loro una struttura psicologica che prima non avevano o era appena abbozzata. E la mostra alla Barberini parla proprio di questo.

Foto di Alberto Novelli

Foto di Alberto Novelli

“Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento”, Gallerie nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini, fino al 27 marzo 2022. Da martedì a domenica h.10-18, biglietto euro 7 solo mostra, 15 mostra e museo, euro 12 solo museo. Accesso solo con il green pass, prenotazione obbligatoria nei giorni festivi. Per informazioni 064814591 e www.barberinicorsini.org

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