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Les ogres (gli orchi )

Les_Ogres

di Giusy Criscione.

Les ogres è il titolo del film di Léa Fehner, pellicola di nicchia che affronta il tema, molto caro a Fellini, dell’artista di strada. Non a caso la pellicola viene presentata solo in circuiti d’essai come il nuovo spazio romano Apollo 11, piccolo salotto con panche imbottite, molto anni 70’ che ripropone da vicino l’atmosfera delle Cantine Romane. Come molti ricordano in alcuni spazi angusti e umidi è nata e si è sviluppata l’ Avanguardia teatrale romana dove si rappresentava di tutto: dai primi nudi a teatro di Giancarlo Nanni ai films di rottura o di protesta. Citiamo tra tutti  lo storico e glorioso Film  Studio, altro spazio alternativo della Capitale.

Ben venga quindi la programmazione cinematografica di questo nuovo spazio per cinefili  in un quartiere molto interessante e anche fin troppo  «cinesizzato»come è diventato l’Esquilino, intorno a piazza Vittorio.

Le Ogres è un film corale e autobiografico che mescola e accosta la vita quotidiana e «a margine» dei commedianti con le loro messe in scene, in questo caso un Checov rivisitato ad uso e consumo della compagnia Davai . Il film è un racconto volutamente disordinato, come lo è la loro vita quotidiana. Uno spaccato di tante esistenze sopra le righe  e irritanti come lo sono alcuni personaggi. E’ la giornata tipo di una compagnia che vive da una parte la dura realtà di dover andar in scena tutti i giorni e dall’altra i drammi personali e inevitabili di persone a volte fragili ma anche dispotiche, alcune ricche di umanità, come la moglie del capocomico, fortemente provate dalla vita o come la figlia Ines che si ritrova sola con tre figli. Durante le due ore di spettacolo avviene di tutto: un incidente ad una ballerina che deve essere sostituita, l’arrivo di una ex amante, una rissa colossale, tradimenti e la nascita di un bambino. La vita di tutti i giorni si intreccia in continuazione con quella di scena dando un ritmo spesso drammatico e frenetico: se la vita quotidiana si svolge con il disordine di un’esistenza nomade sciatta e trascurata anche se intervallata da momenti di gioia ed ilarità, la vita immaginaria e illusoria della finzione è sempre uguale a se stessa  secondo regole ordinate e precise. Ogni personaggio ritrova la sua collocazione nel momento che va in scena.

La Fehner, al suo secondo lavoro, non dimentica niente nel narrare la turbolenta vita dei protagonisti dove però, nonostante le liti, gli amori, gli odi e i rancori vince sempre su tutti il gruppo; la forza di coesione di una famiglia allargata che si suggella grazie alla passione dell’arte di recitare, che trova fonte di ispirazione e vita in quel momento irripetibile  che è l’andare in scena. La regista  utilizza un cast in parte familiare ma che ben si amalgama.

Se in alcuni momenti il film risulta quasi sgradevole per il voluto realismo dall’altra va riconosciuto il merito alla Fehner di sapere bene qual è il suo punto di vista nel raccontare una storia fatta di sensazioni dove la spinta ad andare avanti è data proprio dalla circolarità della ripetizione dei gesti : montare e smontare il tendone, ripartire, fare pubblicità alla propria arte, andare in scena e così ricominciare in un altro luogo o città. Le crisi personali, la precarietà di vita vengono comunque superate ed ogni giorno si ricomincia con nuova forza e spesso anche entusiasmo.

 

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