Secondo Johann Nikolaus Forkel, musicista nonché biografo del sommo Bach, questi avrebbe composto della musica particolare, ad uso insonnia, ovvero l’avrebbe scritta per il giovane Johann Gottlieb Godberg, suo allievo, il quale, a sua volta, l’avrebbe eseguita per addolcire le notti dell’ambasciatore di Russia. Quindi le famose “Variazioni Goldberg” sarebbero una sorta di colorito scherzo melodico, momento ludico che si aggiunge allo scarso seppur gustoso filone “profano” della musica bachiana (vedi, ad esempio, “La cantata del caffè”).
E invece no, tutt’altro, perché qui ci si trova davanti ad una delle strutture più complesse dell’intera – e smisurata – produzione del Maestro, che sconfina nella matematica e un po’ anche nell’esoterismo. Diciamo più una conformazione geometrica, dove regna la simmetria delle singole parti volte all’armonia del tutto e dove la composizione e scomposizione numerologica (le variazioni sono 30) appare finalizzata a ricreare uno schema rituale e quindi sacro (d’altronde ben conosciamo la religiosità del vecchio Johann). E che quest’aneddoto sulla musica anti insonnia sia inverosimile per una questione di date poco importa, resta la sua grandiosità che, ad ogni esecuzione, è come fosse la prima volta.
Le “Variazioni Goldberg” è nata per cembalo a due manuali, ma va bene anche per piano (e Bach ne faceva di trascrizioni, di pezzi suoi e degli italiani, Frescobaldi, Corelli, Marcello, Vivaldi), ciò che cambia è, per così dire, la pronuncia. E, naturalmente, la timbrica, che evidenzia maggiormente la divisione dell’insieme in tre sezioni, almeno secondo la visione di Pietro De Maria, che ha li ha interpretati. 30 brani, 10 esercizi per tastiera, 10 a imitazione libera e 10 a canone, quindi si può parlare in termini quasi didattici, le “Variazioni” come un variegato manuale ad uso tastiera.
E che un po’ lo sia è chiaro sin dalle prime battute, un inizio molto soffice al quale segue uno zampillare di note che si acquieta in un fraseggio più serioso poi, di nuovo, è tutto movimento. E così in un’alternanza di tempi, come nello schema proposto da De Maria (anche se non condiviso da due insigni musicologi quali Pietro Basso e Rattalino), con un incedere sinusoidale, proprio di un discorso che si sviluppa in una gradualità di oscillazioni melodiche. Ed è qui il suo elemento di fascino.
Apparentemente non v’è ordine nella sequenza d’insieme ma, in realtà, i brani s’inanellano l’un l’altro in maniera armonica, pur con le loro diversificazioni tonali, anzi, sono queste ad impreziosire il tutto. E, in questa miscela sonora, figurano anche tempi poco in sintonia con il tono generale, una giga, un’ouverture alla francese, un simpatico “quodlibet”, cioè una melodia di diretta derivazione popolare (due canzoni che spesso, nelle loro riunioni conviviali, intonavano i componenti della folta famiglia Bach).
Pietro De Maria ha percorso il non facile sentiero delle “Variazioni” puntando su un tocco morbido, accattivante, anche nei passaggi più vivaci, come un paio di fughe, accentuando – ma senza calcare la mano – la circolarità dell’opera. In fondo si tratta di un qualcosa che inizia, viene narrato e non si conclude ma resta lì, pronto per un altro ciclo, insieme nuovo e diverso, come l’aveva concepito Bach. E De Maria ne ha dato un’interpretazione doppiamente valida, sia dal punto di vista tecnico (l’incedere simmetrico di cui dicevo sopra), sia da quello più intimo (la componente, diciamo così, esoterica), e l’effetto finale è di un che di trasognato che ha coinvolto calorosamente il pubblico. Per il bis, come era prevedibile, Bach, uno dei brani più noti del “Clavicembalo ben temperato”, di recente inciso da De Maria per la Decca.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 29 aprile 2017.il17 giugno 2017.
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