La Maschera, ovvero l’alterità che s’insinua nella sospensione dei ritmi quotidiani, l’io capovolto o, meglio, il doppio che ha una ambivalenza ludica e tragica. E’ appunto la filosofia della maschera, che si codifica nell’immagine del clown, dove convergono, si miscelano e si neutralizzano a vicenda farsa e dramma. Non a caso la figura del pagliaccio circense è duplice: il Clown Bianco e l’Augusto, due categorie che simboleggiano l’ambiguità stessa della vita umana.
Alejandro Kokocinski ha respirato sin da giovanissimo il clima del circo, impregnandosene al punto che diverrà il medium di linguaggio nel quale condenserà forme e colori della sua diaspora iniziata nel 1948, quando con la famiglia lasciò la Polonia per l’Argentina. Qui insieme ai suoi vive per alcuni anni presso una comunità di indios Guaranì poi, nel 1954, inizia a lavorare in un piccolo circo uruguayano, affermandosi come acrobata con i cavalli. Gira l’America Latina e comincia a disegnare ma il golpe dei militari argentini interrompe la sua carriera di scenografo teatrale intrapresa a Buenos Aires. Ripara a Santiago del Cile, dove espone opere di denuncia sui “desaparecidos”, ma un nuovo golpe militare contro il governo Allende lo costringe all’esilio. Ripara in Italia, trovandosi presto a suo agio in quel colorito fermento intellettuale che caratterizzava l’Urbe negli anni ’70. Il resto è una mostra dopo l’altra e l’affermazione a livello internazionale.
Dunque un testimone che ha scelto la strada antica del camuffamento per materializzare i suoi fantasmi interiori: “La Vita e la Maschera: da Pulcinella al Clown”, alla Fondazione Roma Museo, Palazzo Cipolla. La mostra si articola in sei sezioni che si configurano come una sorta di cammino iniziatico, quasi un immersione nei recessi dell’ES, dove l’inconscio modella le sue larve. “L’arena” ed ecco apparire l’involucro che racchiude l’essere e la sua ombra, positivo e negativo ben rappresentato dal Matto dei Tarocchi (“Scendo vestito di luna”) e tuttavia, pur nel dualismo della personalità, v’è un anelito a superarsi (“Volò tra le stelle”).
Ma siamo ancorati a noi stessi, ed è la seconda tappa, “Pulcinella”, il sorriso che è un po’ un ghigno e però con un fondo di tenerezza, anche se intrisa di malinconia (“Sono solo nel cortile del mio cuore”). D’altronde le radici di Pullecenella sono sì nel ‘500 napoletano e nella Commedia dell’Arte ma si ritrovano anche più indietro nel tempo, nelle maschere funebri arcaiche. Un dolore antico che, per empatia, suscita in Kokocinski una profonda eco e ci introduce ad altre due tappe emblematiche, “Petruska”, con riferimenti a Stravinsky e Diaghilev, e “Sogno”, dove si celebra il superamento del sé in una dimensione onirica. E nel mezzo sono raffigurazioni di un’intensità che colpisce in quanto vi avverti un’inquietudine di fondo che lascia tutto irrisolto (“Quello che ho Quello che spero Tutto quello che sono Tutto quello che amo”). E questo risalta maggiormente nelle sculture, con assemblaggio di materiale vario, dove il non finito si esprime nella violenza dei corpi disarticolati, chiara eco di una violenza vissuta in prima persona. Un bellissimo Cristo mutilato rimanda alla tragedia dei “desaparecidos”.
Ma se l’orrore si cristallizza nella maschera (“Olocausto del clown tragico”) pure affiora una speranza di cielo ed è l’angelo in volo, una sorta di Nike anelante ad un “oltre” non umano (“Come la mia notte spogliata dalle stelle”), che raggiunge il culmine nell’installazione dove si raggiunge un equilibrio fra realtà e ideale (“Liberato dalla pesantezza”). E così le tappe conclusive, “Il Clown” e “Maschera interiore”, diventano un momento di purificazione (“E il clown catturò il cielo”), la catarsi finale che permette di guardare il Male in faccia (“Yo quiero a la Argentina, y Ud?” e non puoi non pensare a Goya e George Grosz).
Il cammino è apparentemente concluso ma in verità è solo l’inizio, bisogna scegliere “cosa” essere nei confronti del mondo: quale maschera mostrare. Emblematico in tal senso “Tribuno, profeta o pagliaccio”, ovvero decidi la parte che vuoi recitare nel “Gran Teatro del Mundo”, per dirla con Calderon de la Barca. Perché è comunque una recita, in costante equilibrio fra farsa e dramma, il Clown Bianco e l’Augusto come espressione di un disagio antico che nei corpi disarticolati diventa metafora del “Weltschmerz”, il Dolore Universale. Colori vividi, violenti ma anche morbidi, come le linee e le forme, ora incisi con forza ora volutamente sfocati. E su tutto s’espande “La preghiera del Clown” letta da Sergio Castellitto, che il grande Totò recitava ne “Il più comico spettacolo del mondo”. Antonio De Curtis, ‘O Pazzariello.
“Kokocinski. La Vita e la Maschera: da Pulcinella al Clown”, Fondazione Roma Museo Palazzo Cipolla, fino al primo novembre. Da martedì a domenica h.11-20, lunedì h.15-20. Ingresso libero. Per informazioni 06.69924641 e www.mostrakokocinskiroma.it e www.fondazioneromamuseo.it.
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