Pubblicato: 8 febbraio 2014 di in Consigliati // 0 Commenti
Avevamo concluso la prima parte di questo “servizio” con il tariffario stabilito dallo Stato, nella seconda metà del XIX secolo, per ognuna delle tre categorie di “Case”: Case di lusso Case di medio livello Case popolari E’ arrivato il momento di dare uno sguardo da vicino a questo tema che, diciamolo con tutta franchezza senza giri di parole, affascina e intimorisce. Il “fascino” scaturisce da quel certo non so che di romantico e di misterioso che, a torto o a ragione, viene evocato dal termine stesso “case chiuse”. Il timore, invece, è legato a qualcosa di più complesso che lambisce la morale, l’etica, la religione, ecc. aspetti, questi, che impattano sul tema in argomento (e sul sesso in generale) in maniera assai articolato e spesso anche conflittuale. A noi, però, in questa sede interessa seguire lo spaccato storico che ha fatto da cornice alle Case Chiuse e catturare e atmosfere e lo spirito che aleggiavano attorno ad esse. Aspetti di altra natura, ancorché importanti, il vostro cronista, consapevole dei suoi limiti e delle sue debolezze, preferisce lasciarli agli esperti che si esibiscono nei coltissimi ed estenuanti dibattiti dei salotti televisivi. Riprendiamo il discorso. Attorno all’argomento sin da subito si sviluppò un dibattito accesissimo, dai toni che spaziavano dal surreale all’apocalittico per le sorti della morale pubblica.
Il Parlamento si spaccò a metà, ma, badate, non sulla ipotesi di chiudere le “Case di tolleranza”, in essere da appena trent’anni con crescente successo, quanto sulla proposta di autorizzare la vendita al loro interno di derrate alimentari, di cibi e di bevande di vario tipo. Come dire, che il problema non erano le Case, quanto l’opportunità che Bacco e Venere coabitassero sotto lo stesso tetto, e che fosse il tetto di un postribolo era solo un trascurabile dettaglio. Il Parlamento profuse un impegno senza precedenti per venire a capo della faccenda e le due fazioni, quella dei Conservatori e quella dei Riformisti, si avvalsero dei loro migliori oratori per perorare le rispettive cause. I conservatori erano decisi a battersi fino all’estremo sacrificio per salvaguardare la, come dire? purezza dell’attività che si svolgeva al chiuso di quei santuari del piacere della carne e l’onorevole Vigoni, immolandosi eroicamente sull’altare della causa, volle recarsi in visita al “Babi”, forse la più famosa Casa di Tolleranza di Torino, per constatare di persona quanto inopportuna fosse la mescolanza di appetiti così eterogenei. Sentite cosa riferiva in Parlamento:
“L’atmosfera già appesantita dal lezzo delle pratiche vergognose e dal fumo dei sigari era pressoché irrespirabile per via del cattivo odore esalante da quella mescolanza di cibarie aggiunto ai fiati carichi di vino, di grappa e di rhum, assommati al sudore dei corpi”. Come se non bastasse, l’integerrimo onorevole aggiungeva che molti degli uomini presenti “forse erano promessi sposi a una casta fanciulla ed alcuni perfino mariti e padri”. I Riformisti, convinti dell’utilità di un sistema integrato nell’erogazione del piacere non si lasciarono commuovere dalle parole accorate dell’onorevole Vigoni e per bocca di uno dei suoi oratori di punta, l’onorevole Felice Cavallotti, riconoscevano che “il piacere venduto in quelle case è assai relativo”, ma non c’era ragione alcuna di “togliere perfino la possibilità di un onesto bicchiere di vino, di uno spuntino, di una chitarra e di un canto, significa davvero ridurre la funzione a quella di brutali sfogatoi della libidine popolare”. Ebbero la meglio i Conservatori, oggi diremmo la Destra, ma al vostro cronista non è dato sapere se fuori del Parlamento si è esultato per aver imposto il divieto di organizzare feste, di cantare e di ballare all’interno delle Case Chiuse. Com’era “andare al casino” ce lo dice Tinto Brass, grande intenditore, gran frequentatore e gran signore:
“I casini erano come i club in Inghilterra. Non ci si andava solo per consumare un atto sessuale, ma anche per perdere tempo, chiacchierare, incontrare persone e si poteva stare in compagnia anche per qualche ora. Da questo veniva l’invito della maitresse a “non far flanella”, che voleva dire “non consumate i pantaloni sulle panche, ma andate in camera o da qualche parte …” Ecco, adesso sapete anche che la flanella non è soltanto un tipo di stoffa, ma anche un modo di dire di derivazione inequivocabile. Insomma, in quei luoghi si andava per uno scopo ben preciso, punto e basta. Non erano come il mitico Caffè Greco di via Condotti ai cui tavoli sedevano stelle di prima grandezza dell’intellighentia italiana ed europea per sorseggiare un tè coi pasticcini mentre discutevano, seri e compiti, di letteratura, di musica e di arte, ma anche di politica e di strategie economiche e militari. Se al Caffè Greco andavano personaggi come Maccari, Landolfi, Soldati, Cardarelli, Talarico, Patti, Buzzati, Moravia, Maupassant della Maison Tellier di Fontanella Borghese, chi erano i frequentatori delle Case Chiuse? Non crederete mica che in quei posti ci andassero soltanto i militari in libera uscita, gli operai della Tiburtina Valley , gli scaricatori dei mercati generali ed i ragazzetti appena maggiorenni? Non sarà così, ma indizi attendibili farebbero credere che molti degli incontri che avvenivano al Caffè Greco avevano una coda in luoghi altrettanto discreti ed ovattati, non lontani da via Condotti. Qui, si sussurra, la compagnia si arricchiva, di tanto in tanto, con la discreta presenza di qualche personalità vestita con abiti dai risvolti viola e porpora, ma chi scrive non può andare oltre i legittimi sospetti.
A proposito di Case di Tolleranza non lontane da Via Condotti, facciamo insieme una visita guidata per le vie del centro alla scoperta dei santuari della lussuria.
Via Capo le Case vi dice qualcosa? Negli anni Quaranta e Cinquanta, gli anni d’oro per l’attività, il palazzo dove oggi c’è l’Hotel Pincio si chiamava “Le tre Venezie”, dal nome delle tre giovani ed intraprendenti ragazze veneziane che allietavano le serate degli ospiti paganti. In poco tempo questo indirizzo finì sulle agende di facoltosi industriali d’ogni angolo d’Italia, di ricchi commercianti, di marchesi, principi e baroni della nobiltà romana, ben disposti a spendere anche una fortuna pur di trascorrere qualche ora in una delle diciassette stanze arredate con mobili ricercati, velluti delicati e lenzuola di lino pregiato. Da via Capo le Case passarono generazioni di giovanotti e di uomini in là con gli anni e molti ricordano che se durante l’attesa nel lussuoso salone coi soffitti affrescati da artisti ricchi di talento e fantasia, ma poveri di quattrini, venivano discretamente accostate le porte, voleva dire che nel corridoio stava passando un’altissima carica istituzionale, oppure un politico di primo piano, un giudice della suprema Corte o un pio prelato, assai timido e a disagio in quell’ambiente di perdizione. Sulla stessa via, poco distante, ve n’era un altro di postribolo, ma meno elegante del primo, che comunque non era nemmeno il più lussuoso. Si chiamava “La Casa della stonata” ed era frequentato da gente con meno pretese. Oggi la Casa è diventata un edificio con dieci mini appartamenti, funzionali ma assai anonimi. Un servizio del Corriere della Sera di moltissimi anni fa racconta che poco più in là di via Capo le Case, dalle parti del Traforo, c’è l’hotel Menphis ed i portieri dicono che molto spesso arrivano (arrivavano?) dei vecchietti zoppicanti per sbirciare dietro l’angolo dove una volta c’era un’altra casa di tolleranza. “Arrivano, guardano, fissano un punto che solo loro riconoscono e poi se ne vanno sospirando”.
Via Mario de’ Fiori è un’altra strada rinomata per i lupanari dell’epoca. L’Hotel Condotti ha preso il posto di un’altra delle Case più famose nella quale le stanze erano affrescate con dipinti che nulla avevano da invidiare ai soggetti erotici di Pompei, ma il tema più ricorrente era quello degli angeli in caduta libera, in audacissime pose lascive che nulla lasciavano all’immaginazione. Le Case più rinomate erano, però, quelle degli Avignonesi e di Fontanella Borghese, quelle più a buon mercato erano nel quartiere Monti e tra le une e le altre c’erano, appunto, le due di via Capo le Case. Il livello delle Case, cioè il confort assicurato alla clientela, determinava l’assegnazione della categoria. Nella terza, Leonetto, Capocci e Cimarra, offrivano frettolosa ospitalità per una seduta di cinque minuti a 150 lire a militari di bassa forza e a ragazzi di periferia.
Tra questi ultimi non mancavano minorenni con carta di identità ritoccata alla meno peggio, ma al momento del controllo la maitresse quasi sempre poteva avere un attimo di distrazione. Il 19 settembre del 1958 i giornali della sera uscirono con un’edizione straordinaria: “Entrata in vigore della Legge Merlin: chiuse le Case Chiuse!” Sempre secondo il Corrierone, “la zoppetta”, la strillona del Tritone, così strillò il suo giornale: “Edizione straordinaria!!! Chiusura de li casini. Da domani tutti a fasse le …” E le signorine delle Case che fine hanno fatto? Quelle degli Avignonesi e di Fontanella Borghese si potevano incontrare spesso mentre sorseggiavano il caffè a via Veneto, le altre si sistemarono a Tor di Quinto e sulla Prenestina.
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