Giorgio da Castelfranco, ovvero Giorgione, che si distingue nella pittura non solo veneta del primo Rinascimento per una sensibilità nuova con cui si rapporta ai personaggi rappresentati. Un sapore introspettivo fino ad allora poco percepibile (e visibile), essendo le tematiche pittoriche essenzialmente a caratt0ere sacro, quindi inclini ad una certa fissità agiografica che con la Rinascenza si umanizza. E’ la società che si trasforma, più secolarizzata, e questo ben traspare sulla tela, dove un filone “laico” si sviluppa accanto a quello sacro che, pur sempre cospicuo, risente del nuovo clima (fra i due comunque c’è un interscambio continuo). Leonardo, Michelangelo, Raffaello, certo, per citare nomi importanti, ma anche Giorgione, il quale segnò una svolta nell’àmbito della pittura lagunare, andando oltre l’esperienza di Domenico Veneziano, Giovanni Bellini, i Vivarini, Carpaccio. E varca la soglia di quel più intrigante universo figurativo che avrà come protagonisti Lorenzo Lotto, Sebastiano del Piombo, Tiziano, Tintoretto, Veronese.
Giorgione dunque, artista dal tratto umbratile ed enigmatico, talora inquietante per le allegorie che avverti ma non riesci ad interpretare (“Tre filosofi”, “La tempesta”) e tuttavia artista anche squisitamente umano, come traspare da “Due amici”, capolavoro esposto a Palazzo Venezia. E’ il perno intorno al quale ruota “Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma”, mostra promossa ed organizzata dal polo Museale del Lazio diretto da Edith Gabrielli e curata da Enrico Maria Dal Pozzolo. Più di cento oggetti fra dipinti, sculture, libri a stampa e manoscritti, disegni, per meglio focalizzare e comprendere lo spirito di un’epoca: la particolare fisionomia emotiva dell’ “homo novus” rinascimentale. E “Due amici” ne interpreta lo spirito, quello in primo piano visibilmente afflitto da melanconia, forse per pene d’amore, l’altro, alle spalle, che sfoggia un’espressione più sicura e solare (meno intenso ma comunque allusivo il vicino “Ritratto di due giovani uomini” del Cariani).
Viene il sospetto, conoscendo Giorgione, che sia la rappresentazione allegorica della stessa identità sdoppiata, con quegli occhi del melanconico che, affissi nel vuoto, cercano qualcosa di ancora non ben definito (e, di contro, la realtà concreta dell’amico). La “Melancholia”, celebre incisione di Durer, fa da controcanto a questo quadro che stabilisce un legame diretto fra la Serenissima e Roma, essendo il Palazzo sede di papa Paolo II Barbo, veneziano, nonché del cardinal Grimani, anche lui veneto e grande collezionista, che commissionò l’opera. E il visitatore, accolto ad inizio mostra dalla splendida tela di Andrea Micheli detto il Vicentino, “Processione in piazza San Marco con il corteo della dogaressa Morosini Grimani”, celebrazione dello sfarzo della Serenissima, viene cooptato in un continuo gioco di rimandi fra le due città. Alla spettacolare ed accuratissima xilografia in 6 fogli che mostra la Venezia del ‘500 è affiancata una veduta di Roma dello stesso periodo (popolosa soprattutto in Campo Marzio, intorno rovine, vigne ed orti). E poi, naturalmente, memorie di Paolo Barbo, il bel busto di Mino da Fiesole, una curiosa collezione di salvadanai papali, la cassetta da viaggio. Si crea il clima storico e, accanto, quello più di costume, rappresentato dal “Libro del cortegiano”, di Baldassarre Castiglione (che definiva Giorgione pittore “eccellentissimo”).
Entriamo così nella mutata sensibilità dei tempi, ben documentata nel prosieguo della mostra, a Castel Sant’Angelo, ma prima c’è il passaggio per la video installazione “Il giardino dei sogni” (di Luca Brinchi e Daniele Spanò) che prende spunto da un’altra opera enigmatica di Giorgione, “Fetonte davanti ad Apollo”. Qui al generale impianto allegorico, i personaggi come allusioni di “altro”, fa da cornice un paesaggio fantastico, denso di vegetazione e popolato di animali, quasi la continuazione eccentrica dell’ “hortus conclusus” medioevale. E’ cambiato lo spirito dei tempi, come dicevo, e il materiale esposto al Castello introduce ad una concezione esistenziale ben più sfumata di quella dell’èra di mezzo, di stampo decisamente manicheo. Ora il respiro è decisamente ampio e s’espande soprattutto grazie all’invenzione della carta stampata (in mostra “Il canzoniere” di Petrarca quale modello umanistico e riferimenti a Pietro Bembo, suo cultore e diffusore) ma che, per ora, resta un fatto elitario, mentre la pittura è linguaggio universale.
Ed ecco ritratti dai quali traspare il carattere del personaggio raffigurato, da Tiziano, che collaborò con Giorgione al Fondaco dei Tedeschi in Venezia (“Ritratto di musicista”), a Paris Bordon, per breve tempo a bottega da Tiziano (“Ritratto d’uomo con lettera”). Importante è poi l’affermarsi della figura femminile come protagonista dell’immaginario pittorico, dal Tintoretto (“Ritratto di donna che apre la veste” e “Ritratto di donna che mostra il petto”) a Bernardino Licinio (“Donna che regge un ritratto d’uomo”), ma anche quale protagonista in sé, come Sofonisba Anguissola, figura di rilievo del piccolo ma valido nucleo di donne pittrici di epoca rinascimentale e barocca (la Gentileschi, Elisabetta Sirani, Fede Galizia, Rosalba Carriera, Lavinia Fontana). Di lei “Ritratto di coniugi con mela cotogna” che immette in quell’intimità domestica che ha il suo culmine nel poco noto Tiberio Titi con il suo delizioso “Ritratto dei figli di Virginio Orsini”.
E’ dunque tutta una dimensione nuova ed in continuo movimento, pur se spesso appare cristallizzata nell’etichetta dovuta al rango dei soggetti rappresentati (il quadro già citato ed anche “L’Imperatrice Isabella di Portogallo” di Tiziano e “Eleonora di Toledo” del Bronzino). E, sotterraneo, scorre il flusso dei sentimenti, che se da un lato ripetono vecchi schemi, quelli usuali del “cantar d’amore” (e qui ben si presta “Venere con Cupido” del Moretto), dall’altro, suggeriti da Giorgione, impostano un discorso più complesso. L’uomo della Rinascenza sta scoprendo i risvolti segreti del proprio sé, l’enigma che si cela in ogni essere umano, e non a caso il personaggio maschile di “Ritratto di gentiluomo” di Bartolomeo Veneto porta impresso sul farsetto il motivo del labirinto (e, di contro, compare un’edizione veneziana datata 1516 del Boccaccio, “Labirinti d’amore”).
In conclusione una mostra molto intrigante perché da leggersi tutta fra le righe, essendosi voluto recuperare lo spirito di un’epoca di “cangianti umori”. Anche filologicamente, come si desume dalla colonna sonora che accompagna il visitatore, un madrigale di Philippe Verdelot, che fu cantore in San Marco al tempo dei Gabrielli. Una melodia celestiale recuperata osservando ed analizzando lo spartito del brano musicale eseguito nel “Ritratto di gentildonna con lira da braccio”, di Vincenzo Tamagni. Ed è lo spirito di un’epoca, appunto.
“Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma” fino al 17 settembre. Il biglietto di euro 14 intero e 7 ridotto vale 3 giorni per la visita a Palazzo Venezia (da martedì a domenica h.8,30-19,30) e a Castel Sant’Angelo (tutti i giorni h.9-19,30). L’audioguida è inclusa e scaricabile con l’apposita App. Per informazioni 0632810 e www.mostragiorgione.it
Scritto da: Antonio Mazzain data: 9 aprile 2017.il30 settembre 2017.
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