“Figliuolo egli fu di Bernardo, che traeva origine dalla nobilissima famiglia da Canal, ed era pittore di teatro”. Insieme al fratello maggiore, Cristoforo, collaborava con il padre “..e fece bellissimi disegni per gli scenari”, rivelando mano sicura e fertile fantasia. Il teatro, svago prediletto dal popolo della Serenissima, nobili e plebei, dai tempi delle quattrocentesche Compagnie delle Calze e che, nel ‘700, raggiunge il suo culmine (è il secolo di Goldoni). E Giovanni Antonio si appassiona al suo lavoro, ben attento alle esperienze del Bibiena, innovatore nel campo della scenotecnica: quel “vedere per angolo” che costituirà l’asse portante della sua produzione pittorica.
A Roma, dove si reca con il padre, firma insieme a lui opere di Alessandro Scarlatti, rappresentate al Teatro Capranica, ma di questi disegni come degli altri non resta traccia. Ed è nella città dei papi che Giovanni Antonio getta il seme della sua personalità artistica, pittore “al quale e nella intelligenza e nel gusto e nella verità, pochi tra gli scorsi e nessuno tra i presenti si può trovar che si accosti”, come scriverà nel 1733 (quindi ancora in età giovanile, essendo lui nato nel 1697) Anton Maria Zanetti, grande erudito e mercante d’arte veneziano. Il futuro Canaletto, fascinato dalla maestosità di Roma e delle sue rovine, compone un arioso “Capriccio”, dove si avverte la lezione del Pannini, mentre il padre ritrae l’Ara Coeli ed il Campidoglio. E se Bernardo appare più legato al “vedutismo”, la corrente nata con il Van Wittel e poi sviluppatasi soprattutto a Venezia (Carlevarijs, Bellotto, Guardi) ma anche altrove (Pannini, Vasi), Giovanni Antonio ne amplia la visuale. E’ quel suo intrigante gioco prospettico, come traspare dalla mostra in corso a Palazzo Braschi, 67 fra dipinti, disegni e documenti per celebrare i 250 anni dalla morte.
Venezia, la luce, il colore, la gente che popola piazze e campielli e tutto, paesaggio urbano e paesaggio d’acque, trasmuta in una limpida e serena rappresentazione dove il particolare umano e quello architettonico si fondono in una sorta di gioiosità cromatica che riverbera oltre i limiti della stessa rappresentazione pittorica. E’ l’incanto degli scorci veneziani che Giovanni Antonio trasfigura con la sua sensibilità scenografica, ogni angolo della città come una spettacolare quanto perfetta quinta di teatro. Così “Ponte di Rialto da nord” (“vi si vede lucer entro il sole”, scrive un contemporaneo) , “La Torre dell’Orologio in piazza San Marco” , e quel capolavoro, soprattutto come documento storico, che è “Il Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell’Ascensione”. La mitica e sfarzosa galea da parata dove s’imbarcava il Doge per la cerimonia dello sposalizio con il mare (soggetto anche ripreso dal Guardi), distrutta dai francesi nel 1798.
La Serenissima nel suo quotidiano fatto di umanità mista, nobili e plebei che animano gli spazi chiusi fra l’intrico dei canali e la strettoia dei palazzi o quelli di più ampio respiro. Ed è quasi una fuga prospettica, “Riva degli Schiavoni”, “Il Canal Grande con Santa Maria della Carità”, “Il Molo verso ovest con la Colonna di San Teodoro a destra”, dove i ritmi di vita, la Venezia laboriosa, dei commerci interni e con l’area adriatica, vengono suggeriti dai mercati e botteghe a ridosso dei palazzi e
dalle gondole, bragozzi, galee e tartane addossate ai moli. La Venezia del Canaletto è un polmone pulsante, armoniosa simbiosi città-mare, che ha i suoi estimatori soprattutto in Inghilterra, tramite Joseph Smith, console nella Repubblica della Serenissima e collezionista d’arte. Quadri che, per i rampolli dell’aristocrazia britannica, costituivano un motivo in più per intraprendere il Grand Tour, indispensabile alla loro educazione storico-artistica (Italia e Grecia le privilegiate).
Ormai Giovanni Antonio lavora in piena autonomia, emancipatosi anche artisticamente dall’autorità paterna (qui esposta la dichiarazione originale in data 7 ottobre 1739). Dopo una breve parentesi romana insieme al nipote Bernardo Bellotto, sempre affascinato dal volto antico dell’Urbe (“Colosseo e Arco di Costantino”,“La basilica di Massenzio, Santa Francesca Romana e il Colosseo”) e un soggiorno a Padova (l’arioso “Prato della Valle con Santa Giustina e il monastero di benedettine”), si trasferisce a Londra dove ha continue committenze (a Buckingham Palace v’è una ricca collezione di quadri di Canaletto che re Giorgio III acquistò da Joseph Smith). Pubblicizza il suo studio sul “Daily Advertiser” e realizza opere di grande impegno che suscitano universale ammirazione, come “Il Chelsea College, la Rotonda, casa Ranelagh e il Tamigi”, a suo tempo diviso e ricomposto in occasione della mostra. Poi il ritorno a Venezia, ormai celebre.
Nuovi lavori che documentano il costume della Serenissima, come le “Dodici solennità dogali” (di geometrica perfezione lo schizzo “Incoronazione del Doge sulla Scala dei Giganti di Palazzo Ducale”) ed altre prospettive veneziane, in una delle quali compare il primo caffè italiano, il caffè Florio. Ma le forze declinano e “dopo lungo e compassionevole male” Giovanni Antonio Canal muore a Venezia il 20 aprile del 1768. Lascia una traccia profonda nella pittura veneziana del XVIII secolo, dominata anche dalla figura di un altro grande, Tiepolo, al cui luminismo tardo barocco contrappone il suo linguaggio più naturalistico ma non certo meno brillante. “La sua maniera è luminosa, gaia, viva, trasparente e mirabilmente minuziosa”, scriveva Charles Des Brosses, insigne viaggiatore del Grand Tour, ed è un giudizio valido ancor oggi, a 250 ani dalla morte.
“Canaletto 1697-1768”, Museo di Roma-Palazzo Braschi fino al 19 agosto. Da martedì a domenica h.10-19, biglietto euro 11, ridotto 9, integrato con il Museo euro 17 ridotto 13 (per i residenti 16 e 12). Per informazioni 060608, www.museodiroma.it e www.mostracanaletto.it
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