L’Urbe a metà del XVIII secolo, una città di circa 150mila abitanti, ricca di chiese, palazzi nobili, monumenti vari e, soprattutto, di rovine del passato che affiorano un po’ ovunque. In particolare nella zona di Campo Vaccino, dove inizieranno gli scavi durante l’occupazione francese e poi sotto Pio VII, ma, come già detto, frammenti di quella che fu l’Urbe dei Cesari costellano l’intero tessuto urbano. E’ la faccia nascosta, spesso in profondità, di un mondo remoto che suscita una crescente passione antiquaria grazie anche a personaggi come Winckelmann, nel 1764 nominato Soprintendente alle antichità di Roma e Piranesi, che di quelle antichità fece il fulcro della sua arte.
Giovanni Battista Piranesi, veneto, a vent’anni si stabilisce a Roma e qui apprende i rudimenti dell’incisione all’acquaforte da Giuseppe Vasi restando poi fascinato dalle “parlanti ruine” che sono la peculiarità dell’Urbe. E qui nasce la sua idea di coniugare passato e presente per realizzare un’immagine armonica, quell’immagine che lui, poi affermatosi nel corso degli anni come incisore, scultore, architetto, costruirà giorno dopo giorno, nel suo lungo e complesso percorso artistico. E che ora, a Palazzo Braschi, con “Piranesi, la fabbrica dell’utopia”, viene narrato in maniera esaustiva (ben 200 opere provenienti dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia).
Dunque gli inizi, dove il tipo di linguaggio, lo stile ed il segno già lasciano presagire un temperamento visionario, come nella serie dei “Grotteschi” e, soprattutto, nelle famose “Carceri”. Nel primo genere lui veneto risente dei “Capricci” di maestri quali Tiepolo e Canaletto (ma è un genere non di esclusiva veneta, vedi il Pannini), arricchendoli della sua visione idealizzata delle antichità romane, come “Via Appia immaginaria”, in cui la memoria del passato si addensa fino a divenire una sorta di iperbole narrativa. La componente visionaria, che nelle “Carceri” trova il suo apice, in quel (apparentemente) caotico intrecciarsi e sovrapporsi di geometrie e volumi, dove scale, piani, archi, strumenti di tortura, figure umane, tutto si amalgama in una rappresentazione fra onirica e allucinata. “Una delle opere più segrete che ci abbia lasciato in eredità un uomo del XVIII secolo”, scrive Marguerite Yourcenaur ed è vero, qualcosa che affascina ed inquieta e che ha influenzato nel tempo non pochi artisti (Erscher, ad esempio. Ma anche i Surrealisti sono in debito con Piranesi).
Splendide queste acqueforti con le “Carceri”, tutte da gustare per la cura del particolare, sempre con quel piglio visionario che, ma più moderato, ritroviamo nelle raffigurazioni cittadine, sia la parte antica, sia quella moderna. Gli archi trionfali, il Colosseo, i Fori, il Pantheon e, in parallelo, le basiliche, la zona del Campidoglio, il Porto di Ripa Grande (questo particolarmente notevole). Piranesi traccia il profilo della città del passato e di quella del presente cercando di operare una mediazione, affinché non si perda la memoria di ciò che è stato ma vi sia una continuità ideale. Nella Roma dei papi questo è possibile e lui scava nel profondo, la Forma Urbis Severiana, lavorando insieme al Nolli alla “Nuova Pianta di Roma” che però non lo soddisfa (si rifà al Bufalini, di un secolo antecedente). E il risultato dei suoi studi di recupero compare in “Campo Marzio dell’antica Roma” e “Ichnographia”, entrambe qui esposte, il punto di collegamento, ovvero l’utopia, la città del presente come prosieguo razionale di quella del passato. Il suo celebre “rovinismo” quale spunto per un discorso mai interrotto.
In veste di architetto guarda indietro nel tempo, considera l’arte romana derivata da quella egizia con la mediazione etrusca e realizza quest’immagine di sintesi all’Aventino, nella piazza e poi nella chiesa di S.Maria del Priorato (ma anche il Caffè degli Inglesi in piazza di Spagna, poi demolito). Poi ci sono gli oggetti che oggi definiremmo di design, candelabri, vasi, tripodi, lucerne, una cospicua produzione di neo romanità che incontra i favori dei viaggiatori del Grand Tour ed è all’origine di quel gusto neo classico che fiorirà sul finire del secolo. Roma è il fulcro, come realtà visibile, alla luce del sole (vedi l’eccezionale riproduzione della Colonna Traiana) e come realtà occulta, celata nelle viscere della terra (i colombari, le catacombe, le opere idrauliche studiate con perizia di ingegnere).
Dal tipo di morsura usato sulle lastre d’incisione (i cosiddetti “rami”) ne risulta un segno pastoso, che a tratti si fa vibrante ed inquieto, come nelle “Carceri” o raccolto ma comunque con un che di aggressivo (a differenza del tratto morbido del Vasi, prima suo amico e poi suo concorrente). L’effetto complessivo è quanto mai scenografico e, nella saletta dove una proiezione in 3D permette di entrare nella logica straniante delle “Carceri”, il visitatore può provarlo quasi fisicamente (e qui una nota personale. Credo che Piranesi, nel suo quotidiano girovagare fra le “parlanti ruine”, abbia raccolto delle suggestioni per le “Carceri” osservando le possenti sostruzioni interne del Tempio di Claudio al Celio). E questa visione tridimensionale non fa che accrescere fascino ad una mostra già in sé fascinosa, raccolta intorno ad un artista che Roma vide ed amò come una città proiettata nel tempo.
“Piranesi, la fabbrica dell’utopia” a Palazzo Braschi fino al 15 ottobre. Da martedì a domenica h.10-19, biglietto euro 9 ridotto 7 solo mostra, 15 e 11 integrato mostra + Museo (residenti 14 e 10). Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, la mostra è organizzata dall’Associazione Culturale MetaMorfosi e Zètema Progetto Cultura ed è a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi.
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