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La Parigi di Toulouse-Lautrec

th  Forse qualcuno dei lettori meno giovani ricorderà un bel film di John Huston, “Moulin Rouge” (1952), dove José Ferrer interpretava Henry de Toulouse-Lautrec,  pittore della Belle Epoque parigina, famoso soprattutto per le sue rappresentazioni di vita mondana. E’ un film che viene in mente quasi per riflesso condizionato, a vedere  quei manifesti che sono i graffiti di un mondo scomparso denso di calore e colore. Calore che promana dai locali dove s’incontravano gli artisti, discutendo fra una fumata ed una bevuta d’assenzio e colore espresso nei riti collettivi, di cui il can-can resta come simbolo di un’epoca. Lautrec era tutto questo, un narratore di costume, e tale si disvela nella mostra in corso all’Ara Pacis, “Toulouse-Lautrec. La collezione del Museo di Belle Arti di Budapest”.

  Un narratore aristocratico, perché era di sangue nobile, ma comunque attento e sensibile, come dimostrano le 170 litografie esposte, tecnica nella quale si specializzò tanto da potersi quasi considerare il padre del moderno manifesto pubblicitario. Henry nasce come pittore, si forma in un clima impressionista ma presto si distacca dalla formula luce-colore tipica del movimento che privilegiava soprattutto il paesaggio (in particolare Monet), concentrandosi quasi esclusivamente sulla figura. Questa, in virtù delle frequentazioni mondane, dai salotti borghesi ai locali di Montmartre, diventa il fulcro della sua produzione grafica, quando scoprirà i pregi della litografia come mezzo espressivo. Ed essa fungerà da filtro ironico per rappresentare quella particolare dimensione antropologica che era la Parigi della Terza repubblica.

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  Ecco la sua fauna umana, borghesi, parvenues, intellettuali, donne di vita ma soprattutto scene quotidiane, sempre con quel gusto lievemente satirico che rimanda direttamente a Daumier. In bianco e nero e a colori, magari  celebrità del mondo dello spettacolo che lui conosceva bene, come Aristide Bruant, re del cabaret (con quella sciarpa ed il cappello non puoi non pensare al grande Fellini), o Jane Avril, stella del cafè-chantant. E poi i personaggi che animano le movimentate notti parigine o frequentano i palchi di teatro, settore al quale collaborò sia disegnando programmi di sala, sia curando il lato scenografico. “L’inglese al Moulin Rouge”, “Caudieux”, “Il grande palco”, “Il palco del mascherone dorato” e in particolare “Busto di Mademoiselle Marcelle Lender”, star del Théatre des Variétés, sono alcuni esempi del suo modo di osservare e riprodurre la realtà mondana.

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  Un modo in fondo elegante, perché il segno è nel contempo delicato e pastoso, inoltre, come molti suoi colleghi pittori, Henry è affascinato dall’arte giapponese, che proprio sul finire dell’800 stava seducendo l’Occidente (e maturando il Liberty). “Le japonisme” ammorbidisce i toni, li sfuma ed essenzializza le linee e il Nostro, non a caso collezionista di Ukiyo-e, le stampe su carta di riso, dimostra di aver ben appreso la lezione (vedi, ad esempio, la levità di “Gita in campagna”). Ma, ad analizzare meglio quella vena ironico-satirica che traspare dalla fisicità dei personaggi, sia nei tratti del viso, sia nel disegno anatomico in generale, ci si rende conto come Henry sembra precorrere i tempi. E’ soprattutto nel descrivere un certo tipo di umanità, uomini d’affari, bottegai arricchiti e parvenues in generale che, nel tratto tavolta simile quasi ad un ghigno, anticipa l’Espressionismo, in particolare George Grosz ed Egon Schiele (emblematico, in tal senso, “The Chap Book”).

  Era un fine osservatore, diligente e curioso, e lo rivela la particolare fisiognomica dei suoi personaggi che, pur stemperando nell’ironia, mostrano una caratterizzazione di sapore balzacchiano. E’ la commedia umana vista da Toulouse-Lautrec, senza pretese moralistiche, anzi, con un piglio talora affettuoso, come quando rappresenta “Les filles de la nuit”. Il mondo delle case chiuse gli è familiare, lì passa molto tempo, forse perché nessuno lo prende in giro per la sua infermità, e lo racconta con garbo e rispetto per quelle che fanno la vita (“Le sommeil”, “Donna alla tinozza”). E allora come non riandare con la mente, per analogia, a Maupassant, che quel mondo conosceva bene ed aveva rappresentato con toni di pari discrezione (“La maison Tellier”). E’ lo stesso periodo, anni densi, dove la vita scorreva a fiotti lungo i boulevards parigini.

 cvb E poi gli amici, le comitive, le scampagnate, il tempo libero. “Il fantino”, “La passeggera della 54 o Passeggiata in yacht”, “La clownessa seduta, Mademoiselle Cha-U-Kao”, una dimensione che, con “L’automobiliste” (1898), s’apre al futuro, al nuovo secolo (peraltro presente in mostra con alcuni filmati pathé in b/n e colorati a mano). Al quale Henry riuscirà solo ad affacciarsi, stroncato, nel 1901, dall’alcool e dalla sifilide, pesante bagaglio della sua vita di artista bohémien. Aveva solo 37 anni.

 “Toulouse-Lautrec. La collezione del Museo di Belle Arti di Budapest”, all’Ara Pacis fino all’8 maggio 2016. Tutti i giorni h.9,30-19,30, biglietto euro 11, ridotto 9 (solo mostra mentre questa più Museo dell’Ara Pacis euro 16 intero e ridotto 12, si scala di un euro per i residenti a Roma). La mostra è promossa e prodotta da Roma Capitale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e organizzata da Zètema Progetto Cultura e Arthemisia group .

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