E’ istintivo, innanzi allo spettacolare acrilico e oro su tela che copre un’intera parete di Palazzo Cipolla, pensare a Hieronymus Bosch, “Il giardino delle delizie”, per una certa analogia con quel fantasmagorico caos figurativo. Ma è solo una folgorazione, perché “La nave dei folli” della milanese Patrizia Comand, pur ispirandosi al passato, all’omonimo testo di Sebastian Brant, pubblicato nel 1494 ed illustrato, fra gli altri, da Albrecht Durer, vive di una sua vita autonoma. E’ vero, si presenta come una sorta di parafrasi di un tema antico e tuttavia, analizzando l’opera nei suoi particolari, ci si accorge subito di come sia ben proiettata nel presente.
Un tema antico, certo, perché quello del “mal della luna” è un motivo che attraversa più secoli, dal medioevo alla Rinascenza, trovando la sua consacrazione in Erasmo. La radice è nel mondo instabile dell’èra di mezzo, in eventi che sfuggono al controllo umano, guerre, peste, carestie, e allora, quasi per una sorta di osmosi che è insieme contagio (del Male) e reazione (al Male), ma con in sé una forte componente esorcistica, ecco la visione del “mondo capovolto”. E’ lo straniamento che troviamo nei canti carnascialeschi dei “Carmina Burana” o nella grottesca parodia dei drammi liturgici ne “La fete de l’ane”. E, ancora, nella pittura di Bosch e, più tardi, in Brueghel, che coglie ed esaspera quell’acre sapore di “vanitas vanitatum” che da sempre funge da basso continuo all’umano affannarsi (vedi “Il trionfo della morte”). Ed echi di quel “mondo capovolto” riverberano infine nei sensuali turgori del Carnevale Veneziano al suo apice, nel XVIII secolo.
Tutto questo è lì che si agita fra le righe dell’opera di Patrizia Command, le ombre di tempi che furono trasfigurate in una fastosa quanto iperbolica rappresentazione che coinvolge in quanto allegoria di un’epoca, la nostra, che sembra aver perso il suo baricentro. E se l’apparenza è festosa, con le figure scolpite in pose grottesche, pure quel ghigno satirico che attraversa l’intera opera e si spalma sui personaggi ne muta il significato. Perché ciò che si sprigiona dalla struttura quasi circense di questo grande ciclo narrativo sviluppato in 20 capitoli intersecantisi fra loro (all’origine il testo di Brant è composto da 112); ciò che avverte chi lo analizza nei particolari, è una forte valenza simbolica ben oltre personaggi e situazioni.
Anzi, gli uni e le altre sono già simboli di un percorso parallelo a quello figurativo, un percorso lungo il quale si incontra solo il vizio reiterato, i Sette Peccati Capitali (ma oggi, in questa società “scoppiata”, si è perso il conto…). Dunque un’interna visione morale (non moralistica) che fa da controcanto alla vuota gestualità delle stralunate figure maschili e femminili, singole o in gruppi, che già il segno denso, di una corposità allucinata alla Grosz, caratterizza nella loro colorita follia. E ognuno si agita partecipando a questa sorta di sabba collettivo dove lo stravolgimento e il non senso (apparente) sembrano coagularsi intorno ad una figura mostruosa assisa in trono. Il Grande Vecchio che scompiglia i destini di un mondo già scardinato dal culto del dio Profitto (ai piedi i simboli del dollaro e dell’euro), un mondo – ed è cronaca quotidiana, che ci riguarda molto da vicino – ormai imbarcato su una nave in balìa delle correnti. E vediamo alcuni dei 20 disegni preparatori, nei quali caricatura, deformità e stramberie figurative si miscelano in una sulfurea critica di costume.
Che, come abbiamo visto, ha una forte valenza etica. Ad esempio il pannello “Dei buoni ministri”, con il notabile che procede imparruccato e pomposo su una sorta di carriola trainata da una lumaca, mentre la Commare Secca, come chiamiamo a Roma la morte, gli regge il mantello, a rammentargli la sua nullità. E l’immagine utopica del Buon Governo sfoca nei versi di Sebastian Brandt, “Molti son impazienti di arrivare/ quale prima e quale dopo a comandare/ che pure di diritto nulla sanno”. E’ la saga del Potere che celebra se stesso, ben lungi da qualsiasi implicazione sociale, la cui immagine speculare troviamo nel disegno “Dell’autocompiacimento”, con la sua grottesca immagine maschile che trasuda narcisismo (la selva di specchi).
E affermazione dell’ego è anche in “Della cupidigia”, un’imbellettata matrona felliniana immersa nel lusso e stravaccata in una specie di cornucopia volante trainata dalla morte: “Che ne farà dell’oro che si è preso/ quando sarà nella tomba disceso?”. E vizi e ancora vizi, l’oggi con i suoi miti, dal giovanilismo ad ogni costo di “Dei vecchi matti”, rilettura in chiave semizoomorfa del tema biblico e pittorico di “Susanna e i vecchioni”, al cibo in “Di crapula e gozzoviglia”, raffigurazione allegorica del cibo che tracima da ogni dove (a cominciare dalla tv), e che spesso ingurgitiamo senza renderci conto quanto sia “trash”, spazzatura (ma questo dipende dal messaggio-massaggio pubblicitario). E che dire “Del gioco”, dove due energumeni tipo lottatori di Sumo si confrontano su una scacchiera (la vita?), chiara allusione ad un mito negativo dei nostri tempi, cioè la ludopatia?
Dunque “La nave dei folli” come un apologo dolceamaro, un picaresco viaggio nell’horror vacui che rischia di inghiottire la nostra società opulenta dove è tutto apparenza e vano chiacchiericcio (vedi i corpi che galleggiano in aria come otri gonfi di vento). Ma c’è una speranza che, nel nostro caso, di un’Italia in deriva, significa la ricchezza e la bellezza del nostro passato, un antidoto cui attingere per lenire i mali del presente. La testa del Davide di Michelangelo al centro di questo pittoresco caos antropologico sta lì ad ammonire che solo riscoprendo la centralità dell’essere se ne può uscire fuori. Un neo Umanesimo dove la cultura come consapevolezza ne è l’asse portante ed è poi la politica che da anni persegue Emmanuele F.M.Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo. Sanità, ricerca scientifica, assistenza ai più deboli e, naturalmente, cultura. Solo la Bellezza può evitarci di errare senza mèta sulla “Stultifera Navis”, questo mondo – e questa Italia – che sempre più evocano l’immagine de “La zattera della Medusa” di Géricault.
Inserire un commento