“Il primo colpo di fucile della Grande Guerra fu esploso in questo luogo la notte del 23 maggio 1915”. Visinale dello Judro, nei pressi di Gorizia, il monumento commemorativo che segna per l’Italia, come già, un anno prima, per il resto d’Europa, la fine dell’ottimismo liberty, marcato a fuoco dal sacrificio di un’intera generazione. All’inizio, per tutti i paesi belligeranti, è la retorica della guerra giusta, la vittoria immancabile poi, con lo scorrere del tempo, tutto si configura per quello che realmente è: una violenza cieca e brutale, fatta di uomini mandati al massacro e del fango, sudore e sangue delle trincee. Fra morti, feriti e mutilati le vittime sono 18 milioni ai quali si aggiungeranno poi le altre decine dovute all’epidemia di spagnola maturata proprio nel marciume delle trincee.
Oggi si celebra il Grande Carnaio ed è giusto rivolgere un pensiero a tutti gli umili soldati, la truppa spesso immolata da ufficiali incompetenti (vedi Cadorna), su entrambi i fronti, amici e nemici. E al loro sacrificio, in nome del Kaiser o di re Vittorio, è dedicata la bella mostra in corso a Moena, al Teatro Navalge, “La Gran Vera”, la Grande Guerra in lingua ladina. Vi si narra del conflitto come fu vissuto nella Valli Ladine, allora parte dell’impero austro-ungarico, sul fronte galiziano, a contrastare l’esercito dello zar Nicola II, e su quello italiano. Le Dolomiti, guerra di montagna, combattuta spesso in quota, una guerra di posizione logorante che nei libri di storia figura poco, perché qui, nelle Valli, risulta periferica rispetto ai luoghi che tutti conosciamo (Carso, Grappa, Pasubio, Ortigara, altopiano di Asiago, linea del Piave). L’introduzione allo spirito della mostra è una statua di soldato austriaco posta nella piazza centrale di Moena, “Der Abschied”, L’addio, di Federica Cavallin, ispirata all’omonimo dipinto di Albin Egger-Lienz, importante pittore espressionista austriaco. Quattro percorsi tematici accolgono il visitatore, iniziando proprio con la Galizia, così come viene evocata dal gruppo dei Kriegsmaler, i pittori che rappresentano la guerra nel suo divenire. Ed è un cambio continuo di fronte, un procedere tortuoso di “battaglie frangi flutti”, come scriveva Robert Musil, dove la terra s’impasta dei corpi dei caduti (vedi “La batteria dei morti in palude”, di Rudolf Alfred Hoger).
E Ma anche la guerra di posizione, la guerra di trincea, ha i suoi orrori, con italiani e austriaci che vanno all’assalto a ondate e a migliaia vengono falciati dalla mitraglia, in un macabro balletto per conquistare – e poi perdere e poi riconquistare – pochi metri di roccia e sassi. E’ il secondo percorso, strutturato in maniera tale che si resta coinvolti rivivendo le sensazioni di quei momenti che, per molti soldati, erano gli ultimi della loro giovane vita. Camminamenti, un diorama con filmato d’epoca, una postazione ricostruita così com’era e poi gli oggetti nelle bacheche: di uso quotidiano, posate, il lucido da scarpe, e di morte, maschere antigas, bombe a carbone. E’ una sensazione quasi claustrofobica, perché senti sulla pelle il chiuso delle trincee, la casa coatta dei soldati, linee scavate nella pietra dura e nel ghiaccio delle Dolomiti, che ancora oggi, con il disgelo, restituiscono ossa ed armi arrugginite.
Terzo percorso, le uniformi ed i cimeli della collezione Simonetti Federspiel-Caimi (che figurano fra i curatori della mostra), oggi conservati presso il Museo Ladino di Fassa. Molto eleganti quelle austriache, dai Kaiserjager, la fanteria leggera a difesa del sovrano, agli Standschutzen tirolesi, milizia volontaria di “tiratori al bersaglio”, dalla storia antica (il loro ordinamento risale al 1511). Decisamente più grezze quelle italiane, fanteria, alpini, divise in panno grigio verde non belle ma funzionali, anche se non sempre adatte alla guerra d’alta quota. E poi di nuovo gli oggetti, soprattutto le splendide pipe in porcellana, autentiche opere d’arte che evocano immagini di quiete, la poltrona accanto al camino e non certo la morte che falcia le trincee (ma tanti, malgrado l’odio, furono gli episodi di “pietas”, come Giuseppe Felicetti, al quale è dedicato un ricordo) .
E, infine, tutto l’orrore del Grande Carnaio nelle foto scattate da Ernst Friedrich che, per il suo messaggio antimilitarista, incorse nelle ire del nazismo. Immagini crude, impietose, dove affiora, senza filtri, un discorso di classe, politico se vogliamo, perché la guerra fu anche questo. Così i funerali di stato per l’ufficiale caduto e, di contro, i carri dove venivano ammassati i corpi dei soldati. O il tè conviviale degli alti gradi dell’esercito e, di contro, la “sbobba” servita nelle gavette alla truppa ammassata negli asfittici spazi delle trincee. E questa fu, per quattro lunghi anni, la non-vita che scandì i ritmi delle Valli Ladine, parte di un dramma più ampio da cui deriveranno poi i germi di una nuova e più ampia catastrofe che coinvolgerà l’Europa cancellando per sempre 50 milioni di esseri umani.
Ricordo una volta che salii in quota, verso le rovine di un osservatorio austriaco. Da una feritoia si poteva osservare la valle sottostante e, alzando lo sguardo, la catena dolomitica, con i suoi riflessi argentei (i “Monti Pallidi”, come vengono chiamati). Era un quadro di struggente bellezza, uno sfondo assurdo per un massacro assurdo, ma così è stato.
“La Gran Vera” al Teatro Navalge di Moena fino a settembre 2015, organizzata dal Comun di Moena, Istitut Cultural Ladin “majon di fascegn” e l’Associazione “Sul fronte dei ricordi” che a Someda, la parte alta di Moena, gestisce un piccolo ma interessantissimo museo di guerra. Orario 10-12,30 e 15-19, giovedì e domenica anche 21-23. Biglietto euro 5 intero, 3 ridotto. Per informazioni www.comune.moena.tn.it. Si organizzano visite sui luoghi delle battaglie.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 2 agosto 2017.il18 agosto 2017.
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