Cosa s’intende per arte “primitiva”? E, di contro, qual è il significato di “primitivismo”? E, infine, che rapporto c’è fra le due situazioni? Indubbiamente la seconda scaturisce dalla prima, ne reinterpreta lo spirito in chiave diversa, ma di certo alterandone l’essenza originaria. Perché l’arte primitiva, sin dal suo apparire, nel paleolitico, ha un’intrinseca valenza magico-rituale che, nel tempo, acquisirà sempre nuovi significati. All’inizio è solo presenza e l’immagine lasciata sulle pareti delle caverne (per esempio le grotte di Lascaux) è come un gesto per esorcizzare l’ambiente e prenderne possesso poi, con l’evolversi della società primitiva, ne verrà come amplificata l’originaria accezione propiziatoria. Ed è questa particolare cosmogonia, la percezione del mondo reale e del suo rapporto con il mondo invisibile a fascinare etnologi ed antropologi, soprattutto nel periodo coloniale, quando le principali potenze europee avevano vasti possedimenti in Africa e in Asia. Fascino che, a cavallo fra XIX e XX secolo, contagiò l’arte europea con risultati notevoli non solo sul piano innovativo (era un momento di ricerca, il bisogno di un linguaggio “altro”) ma su quello dei contenuti. Il “Japonisme”, con la sua influenza sull’Art Nouveau e la pittura europea (da Monet a Van Gogh), aveva in un certo senso preparato il terreno e così “l’art nègre” irruppe sulla scena e non pochi ne risultarono sedotti: da Picasso ai Fauves, con casi di fascinazione a tutto campo, per così dire (Gauguin che sceglie la Polinesia). Insomma un periodo di grande fermento dove l’arte dialoga con se stessa mutuando da altre dimensioni culturali ed è il senso della mostra in corso alle Terme di Diocleziano: “Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il primitivismo nella scultura del Novecento”.
Ottanta opere distribuite in cinque sezioni a tema, “L’infanzia dell’essere”, “La visione e il sogno”, “Il mondo magico”, “Amore e morte”, “Il visibile e l’invisibile”. In realtà sono categorie di comodo, un percorso ad uso del visitatore, perché nella società primitiva non vi sono cesure, è una “totalità” dove coesistono corpo e anima, realtà e illusione e dove la linea di confine fra i vari stadi appare quanto mai labile. Anzi, c’è come un’interdipendenza che ben si sintetizza in una delle opere “primitive” esposte, una sorta di tronco stilizzato e traforato sul quale sono scolpite figure a somiglianza umana. Potremmo definirlo l’albero della vita i cui custodi sono gli spiriti degli antenati, i numi tutelari che costituiscono al contempo il basso continuo ed il comun denominatore della mostra. Il presente scaturisce dal passato e si cristallizza nelle forme che il clan tribale fa proprie assumendone la sacralità, in quanto intermediarie fra due mondi. Così il “Byeri” del Gabon, scultura che rappresenta un’entità spirituale a custodia delle reliquie degli antenati o il “Nommo” figura lignea dell’etnia Dogon, il genio benevolo che protegge dagli spiriti maligni. Chiara la valenza apotropaica di queste ed altre raffigurazioni, peraltro un tempo -e in parte ancora oggi- ovviamente in sembianze diverse, comuni anche in Occidente (pensiamo al nostro Sud anni ’50 e agli studi del grande De Martino). E, ancora, maschere, manufatti vascolari africani, un cranio di bambino rimodellato con argilla e dipinto che, in Nuova Guinea, serviva a preservarne il ricordo. Naturalmente non manca la figura dello sciamano, il tramite fra i due mondi, qui evocato da un bastone magico melanesiano. In parallelo quanto l’Occidente ha espresso, ovvero il “primitivismo”, che è puro concetto estetico spogliato della sua sacralità originaria. E tuttavia, se significante e significato non coincidono più è impossibile non ammirare, ad esempio, “Le demoiselles d’Avignon” di Picasso o talune opere di Braque. E qui in mostra figurano lavori notevoli, dove l’influsso del “primitivo” appare evidente e cito, oltre a Picasso, Max Ernst, André Derain, Jean Dubuffet, Alberto Giacometti, i nostri Enrico Baj, Marino Marini (“Danzatrice”), Adriana Bisi Fabbri (una sorprendente “Gorgona” in gesso dipinto), Mirko Basaldella, Lucio Fontana.
Dunque una mostra che, nel confronto dialettico fra due dimensioni culturali diverse e tuttavia complementari, scava all’interno, alla ricerca di quell’immagine archetipica che, in misura diversa, è patrimonio comune. Poiché, come scriveva Jean Servier, famoso etnologo francese, “Il sacro può essere creato dall’uomo mentre l’invisibile gli si impone”.
“Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento” alle Terme di Diocleziano fino al 20 gennaio 2019, da martedì a domenica h.9-19,30, biglietto euro 12 intero 10 ridotto.
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