Il mito dell’Urbinate
prorogato al 5 marzo
Il visetto paffuto, una cascata di riccioli, l’aria un po’ impertinente e lo sguardo trasognato. E’ il delizioso “Putto reggifestone”, affresco distaccato attribuito a Raffaello, che il pittore francese Jean-Baptiste Wicar donò all’Accademia di San Luca (forse come una sorta di risarcimento morale, in passato essendo lui incaricato ufficiale delle razzìe napoleoniche di opere d’arte in Italia). Inevitabile pensare all’immagine del profeta Isaia, nella chiesa romana di Sant’Agostino, affresco di Raffaello dove il personaggio biblico appare affiancato da due putti e quello di sinistra è identico al frammento in mostra. Dunque un probabile primo abbozzo, di certo un’opera pregevole, divenuta nel tempo spunto pittorico per una serie infinita di copie e qui, accanto all’originale, figurano quella molto elegante di Gustave Moreau, precursore del Simbolismo, ed un’altra ottocentesca di discreta fattura.
E attribuito è anche “San Luca dipinge la Vergine”, tela per così dire tripartita, con l’Evangelista al centro, la Madonna con il Bambino a lato e sullo sfondo, a destra, Raffaello. Un modello per imitazioni successive e infatti in sala ne sono presenti ben otto: la più notevole è senza dubbio quella realizzata da Antiveduto Grammatica nel 1623 e di recente restaurata dall’Accademia stessa. Le altre opere che evocano la figura del santo patrono dei pittori sono acqueforti e lavori al bulino, tutti di buon mestiere. E il fanciullo con i festoni e San Luca si può dire che siano il cuore pulsante della mostra “Raffaello. L’Accademia di San Luca e il mito dell’Urbinate”, in corso nel cinquecentesco Palazzo Carpegna ristrutturato dal Borromini (suoi il loggiato e la spettacolare rampa elicoidale interna che permetteva l’accesso delle forniture ai piani alti a dorso di mulo).
Dunque il mito o meglio la fortuna nei secoli di un pittore che ha saputo sviluppare i canoni dell’arte classica ingentilendoli con una vena di profonda e come trasognata umanità. Il percorso, articolato in cinque sezioni, illustra appunto quella che nei secoli è stata una lunga e feconda variazione su tema, nonché una implicita volontà di ritorno alla purezza originaria (in tal senso è emblematica l’avventura pittorica dei Nazareni). Raffaello quale icona che diviene punto di riferimento e tale appare nella terza sezione, “Raffaello nella cultura e nella didattica moderna”, dove i temi a lui cari, soprattutto il ciclo delle Stanze Vaticane, vengono generalmente reinterpretati non in maniera pedissequa ma secondo la sensibilità dell’epoca. Così due bei bulini della seconda metà del ‘700 di Giovanni Volpato, incisore, ceramista e antiquario, “La Scuola di Atene” e “La disputa del Sacramento”. E poi le sanguigne di Andrea e Giuseppe D’Oratio e Antonio Pichi (attivi a Roma nel XVII secolo) ispirate a temi biblici, le versioni del profeta Isaia di Francesco Matera e Giacomo Guacci (entrambi XVIII secolo), “Abramo e gli angeli”, una movimentata terracotta di Gaspare Capparoni (XVIII secolo). Molto particolare poi “Cranio di Raffaello”, un disegno di Tommaso Minardi datato 1833, tuttavia non veritiero perché, aperta la tomba, lo scheletro risultava intatto.
Una bella copia del “Trionfo di Galatea” firmata da Pietro da Cortona, uno dei tre grandi protagonisti del Barocco romano insieme a Bernini e Borromini, apre la IV sezione, “Raffaello nella Galleria Accademica” ed una serie di foto degli anni ’30, via Bonella, poi demolita per aprire via dei Fori Imperiali, dove la Universitas picturae mutò il suo nome in Accademia delle Arti della Pittura, della Scultura e del Disegno (così un Breve di Gregorio XIII, 1577). Fra gli altri materiali presenti anche guide per visitare l’Insigne Accademia di via Bonella 44, presso il Foro Romano (era la via che si dipartiva dall’Arco dei Pantani, tuttora esistente, ed attraversava il Foro d’Augusto). Infine, ultima sezione, “Raffaello nell’opera dei maestri accademici”, tre secoli (dal XVIII al XX) che dimostrano come il maestro di Urbino continui a svolgere una funzione quasi archetipica. O copia o originale, tutto è come irrorato del suo fascinoso fluido pittorico.
Tredici opere realizzate dai frequentatori dell’Accademia, fra le quali si distingue “La speranza”, corposa tela del 1765 di Angelica Kaufmann che si legò a Goethe con un rapporto di stima reciproca. Nella figura rappresentata si avverte tutto l’amore della pittrice svizzera per i grandi maestri italiani, in particolare, ovviamente Raffaello. Degni di nota anche “Propagazione del cristianesimo” (1848), matita e acquerello di Tommaso Minardi, “San Luca” (1887), di Francesco Podesti e “La resurrezione del figlio della vedova di Naim” (1806) del già citato Wicar perché, a ben osservarlo nei particolari, risulta come un punto di passaggio fra neoclassico e sensibilità preromantica (vedi il contrasto fra le figure e il paesaggio). Infine “Il ferrarese o Ritratto con antichi marmi” (1962), di Achille Funi, un’intrigante composizione allegorica che suggella degnamente quest’omaggio ad un immortale della pittura italiana.
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