Il fregio di Enea
Il fregio di Enea
di Antonio Mazza
Oltre che centro di potere la corte di Alfonso I Duca d’Este era anche un cenacolo d’arte, il cui principale contributo proveniva dalla scuola pittorica ferrarerese, affermatasi con forza nel XV secolo (Francesco Cossa, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti). Benvenuto Tisi detto il Garofalo e Giovanni di Niccolò Luteri, Dosso Dossi, erano i più attivi alla corte estense e fu il secondo che ebbe l’incarico di realizzare un ciclo pittorico per il Camerino d’Alabastro del Duca. Il soggetto riprendeva un tema tipico dell’arte rinascimentale, cioè proporre motivi di storia antica in chiave mitologica: nel caso specifico il viaggio di Enea dopo la caduta di Troia, alla ricerca di una nuova patria. Ne risultò una narrazione in dieci dipinti di notevole fattura che, con il passaggio di Ferrara allo Stato Pontificio, nel 1598, andarono ad arricchire la preziosa collezione di Scipione Borghese. In seguito venne acquistata a fine ‘700 dal pittore e direttore del Museo del Prado di Madrid Josè de Madrazo, finendo poi dispersa come, purtroppo, buona parte della collezione Borghese. E dunque è un avvenimento averle recuperate in varie parti del mondo per ricomporle in maniera unitaria (anche se sono cinque dipinti su dieci) nel luogo dove un tempo era possibile ammirarle.
“Dosso Dossi. Il fregio di Enea” alla galleria Borghese, dove peraltro sono presenti due opere importanti, in particolare “Melissa”, che esprime in pieno tutta la complessità e densità artistica del pittore ferrarese. Se vi appare evidente l’influsso dei maestri veneti, da Giorgione a Tiziano, a questa si aggiunge anche la componente naturalistica, l’uso quasi sfarzoso del paesaggio, il tutto spesso immerso in un clima di sapore mitologico (e ariostesco, come nota il Vasari, e in effetti “Melissa” è un personaggio dell’ “Orlando furioso” raffigurato con un tocco favolistico che interpreta in pieno il clima ariostesco). Nei vari episodi che compongono il fregio è tutto un addensarsi di figure immerse in paesaggi di ampio respiro, d’impronta quasi idilliaca, perfetto palcoscenico per rappresentarvi gli episodi più emblematici del poema virgiliano. Del ciclo narrativo, come detto all’inizio, sono rimasti solo cinque capitoli ed il primo colpisce subito per la sua drammaticità. “La peste cretese”, libro III, dove i Troiani, sbarcati nell’isola greca per un errore di Anchise, vengono decimati dal morbo, dipinto dai particolari molto marcati.
Ma quello che risalta e sarà la costante delle altre tavole è la fusione quasi simbiotica fra elemento umano ed elemento naturale, le figure plasmate sul paesaggio come traspare dal successivo “Arrivo dei Troiani alle isole Strofadi e attacco delle Arpie”, libro III. Soggetto se vogliamo anch’esso drammatico, con il banchetto allestito dagli esuli e devastato dalla furia delle Arpie guidata da Celano, la più malvagia fra loro, e che tuttavia stempera nel clima generale. Sono quei toni morbidi, ovattati i quali permeano questa come le altre rappresentazioni e che si palesano meglio nel disegno del paesaggio (dopo Leonardo questo era un mondo nuovo tutto da esplorare, anche per meglio far risaltare la figura umana). Una conferma viene da “Giochi siciliani in memoria di Anchise e fondazione di una città in Sicilia”, libro V, dove, mentre fervono i ludi funebri le donne troiane, stanche di vagare fra le onde, bruciano le navi ed Enea traccia le fondamenta della nuova città, Acesta, per chi resterà in Sicilia. Una tela densa di personaggi (e di avvenimenti) avvolta nel caldo respiro della Natura.
E così “La riparazione delle navi troiane, la costruzione del tempio a Erice e offerte alla tomba di Anchise”, libro V, originariamente un’unica tela smembrata ed ora ricomposta. Nella parte sinistra il cantiere dove avvengono i lavori di ripristino, in quella opposta i troiani recano offerte alla tomba di Anchise: in alto, sulla collina, sta sorgendo un tempio dedicato a Venere. Ma l’ultima opera presente in mostra stravolge il tessuto fiabesco dell’intero ciclo, la componente visionaria del linguaggio dossiano raggiungendo qui il culmine. E’ “Il viaggio negli Inferi”, libro VI, Enea nell’Oltretomba guidato dalla Sibilla Cumana e qui, nella parte più profonda dell’Ade, nel Tartaro, luogo di grida e tormenti, fra i dannati compare Tizio, figura mitologica, cui un aquila divora il fegato per l’eternità. Nell’antro oscuro dove è un viluppo inestricabile di anime perdute e figure infernali, s’intravede sullo sfondo Caronte che traghetta i dannati. E, ovviamente, contemplando il dipinto non si può non fare il nome di Hieronymus Bosch, il grande maestro fiammingo, la cui vena allucinata e visionaria Dosso Dossi dimostra di aver recepito in pieno. Quasi a voler concludere con un ghigno satanico un ciclo dove prevale il fattore fantastico, un ciclo di sotterranea poesia che, nel celebrare Enea come eroe di un viaggio che si potrebbe ben definire iniziatico (l’andare verso la rinascita), esalta di riflesso la gloria di Alfonso I e della sua sfarzosa corte estense .
“Dosso Dossi. Il fregio di Enea”, fino 11 giugno. Da martedì a domenica h.9-19, biglietto euro 13 intero, prenotazione obbligatoria. Per informazioni 0632810 e www.galleriaborghese.it
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