Il fregio della vita
Il fregio della vita
di Antonio Mazza
E’ il titolo di un ciclo pittorico che venne presentato alla mostra di Berlino del 1902, una sequenza di opere che racchiudevano il senso del nostro cammino terreno, nascita, amore, morte. Un fregio che, come affermava il suo autore, “presenta tutte le qualità di una sinfonia”, dove le sonorità scaturiscono da un denso intreccio di colori, sensazioni, lucido delirio. E, al centro, la complessa personalità di Edvard Munch, la cui notevole esperienza artistica matura e si sviluppa in un contesto storico di grandi cambiamenti, artistici e sociali. A lui è dedicata la mostra a Palazzo Bonaparte organizzata da Arthemisia con il patrocinio del Ministero della Cultura, Regione Lazio e Comune di Roma Assessorato alla Cultura, della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, del Giubileo 2025 – Dicastero per l’Evangelizzazione, partner principale Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale. A cura di Patricia G.Berman e con la collaborazione scientifica di Costantino D’Orazio e del Munch Museum di Oslo.
“Malinconia” (1900-1) la prima delle 100 opere esposte accoglie il visitatore con la sua figura solitaria in una stanza spoglia e un paesaggio desolato che si scorge oltre la finestra, dando così un preciso connotato esistenziale al percorso pittorico di Munch. Un dolore che viene da lontano, la madre morta di tubercolosi quando lui aveva 5 anni, seguita poi dalla sorella Johanne Sophia, il padre caduto in depressione, la madre in una crisi che la portò alla follia e il fratello Andreas morto giovane. In questo scenario umano di disperazione Edvard cresce con il timore della malattia mentale, frequenta i corsi di disegno della Reale Scuola di Kristiania (l’odierna Oslo) ed è allievo del pittore Christian Krohg. Il suo naturalismo pittorico influenza i primi lavori di Edvard lasciando però trasparire, nel dispiegarsi delle forme e soprattutto nell’uso del colore, una forte componente emotiva, come si evidenzia in “La bambina malata” (1885), tema cui tornerà in seguito (vedi il quadro del 1896).
Il soggiorno parigino del 1889 a Parigi lo porta a contatto con gli ultimi bagliori dell’Impressionismo ed i primi battiti dell’Espressionismo, restando affascinato dalle personalità artistica di Toulouse-Lautrec, Gauguin, Van Gogh. E’ in una fase di ricerca dove la sua particolare sensibilità, tutta fra le righe, è come un crogiuolo dove fermentano insieme immagini della mente, vibrazioni a livello fisico, brandelli di sogno. Sta prendendo corpo la sua pittura, un perenne stato di tensione spirituale che attinge ad un vissuto di dolore e di perdita e questo darà all’intera produzione (quadri, disegni, xilografie) il senso di una incessante elaborazione del lutto. Un processo che la critica non comprende subito ma che Edvard porta avanti facendo propri i segni ed i simboli di un’epoca di passaggio fra due secoli, con i suoi rivolgimenti di costume. La naturale avversione tutta bohémien al conformismo borghese trova linfa nel teatro degli amici Henrik Ibsen (del quale cura alcune scenografie) ed August Strindberg, nonché nell’avvento della psicoanalisi (“L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud è del 1899).
E’ il periodo più fertile, sempre solcato da quel senso tragico della vita che lo isola in un oltre dal sapore quasi onirico (l’allucinato “Visione”, 1892) o meramente simbolico (“La morte al timone”, 1893, dalle vivide tonalità) o, ancora, di dolente matrice domestica (“La morte nella stanza della malata”, 1893, dove ognuno è come cristallizzato nella sua solitudine. Tema ormai interiorizzato che tornerà in “Sul letto di morte”, 1913, e “Lotta contro la morte”, 1915, ma qui compaiono figure slabbrate, quasi un consesso di spettri. E tuttavia in “La morte e la primavera”, 1893, traspare un germe di luce). C’è poi anche il lato semplicemente umano, la percezione dell’enigma feminino (“La donna – La sfinge”, 1894, e “Rosso e bianco”, 1899-900) e della pulsione dell’eros, come appare nella carnalità di “Madonna” in doppia versione, 1895 e 1895-1902) e naturalmente il rapporto intimo uomo-donna che pur esprimendosi in termini di tenerezza (“Coppie che si baciano nel parco”, 1904, “Bacio vicino alla finestra”, 1891, in tonalità impressionista, “Consolazione”, 1907) ha tuttavia anche una latenza ambigua, oscura, quasi vampiresca. E sono le forme avviluppate di “Vampiro II”, nelle varie versioni, olio, pastello, litografia, fino al macabro di “Il bacio della morte”, 1899, “Arpia”, 1899, entrambe litografie).
Il dualismo eros-thanatos che resta sempre irrisolto e l’incontro-scontro fra due mondi complementari ma diversi che produce spesso solo zone d’ombra, come in “Due esseri umani. I solitari”, 1899, xilografia a colori. E’ l’incomunicabilità, un (non)sentire che poi dilagherà nel pensiero dell’Europa del ‘900 (Pirandello, Kafka, Sartre, fino al cinema di Antonioni), qui ben rappresentata da Munch in “Due esseri umani. I solitari”, 1899, xilografia a colori. E’ lo strappo che lui vive sulla pelle nella tormentata relazione con Tulla Larsen, documentata da opere dove il tratto ha un che di convulso e il colore una finalità marcatamente emotiva ( “Autoritratto su sfondo verde“ e “Tulla Larsen”, 1905, quadro simbolicamente scisso in due parti, “L’assassina”, 1906, “La morte di Marat”, 1907, allusivo a lui vittima del gioco d’amore).
Nel 1909 è chiamato dall’Università Reale per una serie di dipinti murali, fra i quali spicca “Il sole”, 1910, dove più che una sagoma lucente è raffigurata una sensazione di luce. Come Gustav percepisce la realtà, il moto universale, un senso panico nel quale razionalità e misticismo si fondono e il corpo stesso sembra sgorgare dall’ambiente di natura, come nella serie degli uomini al bagno, il nudismo quale stato di grazia. E’ il credo che, negli anni, attenua ma non elimina la sua angoscia esistenziale, la consapevolezza di far parte di una totalità, il flusso cosmico, qualcosa che trova riscontro nelle pagine più intense di un grande scrittore suo conterraneo, Knut Hamsun (“Pan”, 1894). E anche il viaggio in Italia, l’immersione nella luce e nella bellezza, con il lungo soggiorno romano del 1927, risulta positivo ed artisticamente proficuo. Nell’Urbe approfondisce Raffaello che già aveva ritratto in un acquarello (“Ritratto di giovane uomo”, 1877) e visita la tomba dello zio, lo storico Peter Andreas Munch sepolto nel cimitero acattolico al quale dedica un pastello ed un olio.
Munch è anche in sintonia con le innovazioni del suo tempo alle quali si applica, come la fotografia (“Autoritratto a Ekely”, 1930, in doppia versione con e senza cappello) e il cinema (qui un breve filmato girato da lui a Oslo). Ma la sua personale ricerca continua, la ricerca di un’identità sempre al limite della follia, come “Autoritratto all’inferno”, 1903, di una serie di autoritratti che scandiscono il ritmo del tempo, fino ad “Autoritratto fra il letto e l’orologio”, 1940-43, dove quella figura di vecchio in un interno (e l’orologio simbolicamente senza lancette) lascia presagire l’imminenza del commiato (Munch morirà nel 1944). Il cerchio si chiude, un lungo e dolente cammino fra fantasmi che invocano attenzione, inframmezzato però anche da momenti sereni e vitali. Così le tele de “Il circolo bohémien di Kristiania”, dal 1895 al 1907, dal timbro espressionista, o quelle dove si adombra una sorta di simbiosi uomo-natura, e poi “Notte stellata”, 1922-24, alla Van Gogh, e “Le ragazze sul ponte”, 1927, di squisita compattezza formale. Ma il filo rosso resta pur sempre quella sottile angoscia dal sapore kierkegaardiano che erompe da opere come “Disperazione”, 1894, o il famoso “Urlo”, qui solo in litografia. Ombre, talora quasi ectoplasmi, figure spesso non definite, rappresentate con un linguaggio che potremmo definire sincretico: un linguaggio che, come pochi nella storia della pittura, ha saputo esprimere il “Weltschmerz”, il Dolore Universale.
“Munch. Il grido interiore” a palazzo Bonaparte fino al 2 giugno. Da lunedì a giovedì h.9-19,30, da venerdì’ a domenica h.9-21. Biglietti euro 18 intero, 17 ridotto. Per informazioni 06 8715111 e www.mostrepalazzobonaparte.it
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