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Il Festival di Musica Sacra nel ricordo di Madre Teresa

justus-frantz_2  Non si poteva ricordare più degnamente Madre Teresa di Calcutta che dedicandole una manifestazione musicale, perché se già la musica è un linguaggio universale, capace di aggregare le culture, quella sacra vi trasfonde un qualcosa di “oltre” che la rende più densa di significato. E’ la sua verticalità che parla direttamente all’anima, a prescindere dal credere o non credere, e il Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra persegue da anni proprio questo scopo, di esaltare, attraverso la melodia, la parte più profonda e segreta di chi ascolta, quella dove si è soli con se stessi e la propria umanità. Dunque la musica come ricerca ed insieme offerta e qui è la sua valenza spirituale, che ben si addice ad onorare la memoria di Madre Teresa nonché a scandire la chiusura dell’Anno della Misericordia.

  Già apprezzata nelle scorse edizioni del Festival torna Tomomi Nishimoto alla direzione dell’Illuminart Philarmonic Orchestra  e l’Illuminart Chorus, dirigendo quella pietra miliare del sinfonismo che è la “Nona” di Beethoven. Una composizione che sarebbe giusto definire epifanica, perché annuncia un evento nuovo, un messaggio che si concretizza nell’invocazione finale, l’Inno alla Gioia. Ed è un maturare lento, dall’inizio sospeso, quasi l’alba del mondo, poi, nel secondo movimento, in un crescendo supportato soprattutto dagli archi, un trasvolare melodico di aerea bellezza che adombra un risveglio alla luce.

  In effetti, la “Nona” si può leggere come un cammino iniziatico, l’umanità alla ricerca di un’armonia superiore. “Gioia bevono tutti i viventi/ dai seni della Natura”, recita un passo del testo di Schiller, l’auspicio di una fratellanza universale che la musica esprime con una forte tensione drammatica ma pervasa come di un’intima letizia. E l’incedere melodico si fa pressante, interpretando la legittima richiesta dell’uomo ad accedere alla Gioia, a Dio se vogliamo, e allora davvero la “Nona” si può definire una preghiera laica, magnificamente interpretata dalla Nishimoto e l’Illuminart, Kana Kumamoto soprano, Takako Nogami mezzosoprano, Naoki Nizuka tenore, Tsutomu Tanaka basso.

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  “Stabat Mater”, la preghiera medioevale attribuita a Jacopone da Todi e amata da generazioni di musicisti, riproposta in due versioni che stimolano il confronto perché due personalità e due stili: Rossini e Boccherini. Ovviamente, e non poteva essere in altro modo, la struttura rossiniana ha un forte sapore operistico e, tuttavia, vi sono momenti quasi liturgici che conferiscono allo “Stabat” un sapore molto particolare. Se l’apertura sa di mistero sacro, la bellissima aria che segue riconduce ai classici  stilèmi operistici, così come il successivo duetto. Ma è nel coro e recitativo, “Eia, mater fons amoris”, tutto a cappella, che Rossini esce dagli schemi, lasciando trapelare una religiosità che s’accresce quanto più ci si accosta al rito estremo. Ed è evidente nella solennità drammatica dell’ “Inflammatus et accensus”, nel canto funebre del “Quando corpus morietur”, di nuovo a cappella, e nello stupendo fugato finale che suggella il sacrificio supremo. Ottima l’esecuzione del Palatina Klassik Vocal Ensemble, del Philharmonischer Chor an der Saar e dell’Orchestra and Chorus del  Conservatorio Statale di Kazan diretti da Leo Kraemer. Meno convincente invece, pur se dignitosa, l’esecuzione di brani del wagneriano “Tannhauser”, che richiedevano una maggiore corposità melodica.

  E se per Rossini è lecito usare il termine “sanguigno”, come sensibilità musicale, per Boccherini vale un aggettivo più lieve, perché il suo “Stabat” è un broccato di seta. Toni tenui, la musica quale canto sommesso dove affiorano le parole in un ritmo di preghiera sussurrata a fior di labbra. “Per te, virgo, sim defensus/ in die iudicii”, una dolcezza in cui stempera la rappresentazione del dramma e tutto si fa meditazione innanzi ad un dolore che travalica l’umano. Grandi interpreti i Wiener Philarmoniker, Albena Danailova direttore e primo violino, Raimund Lissy violino, per essersi calati nello “Stabat” di Boccherini rimarcandone quelle sfumature quasi di pastello ma il merito è anche del soprano Chen Reiss che le ha rese ancora più incisive.

  Giacomo Puccini compose la sua “Messa di Gloria” a soli 18 anni, per l’ammissione all’Istituto Musicale di Lucca che poi lascerà per il conservatorio di Milano, come allievo di Ponchielli. La  Messa per soli, coro a 4 voci e orchestra, è una composizione giovanile ma già si avverte una voglia di innovazione nel linguaggio musicale che, siamo in epoca tardo romantica (la Messa data 1876), sta mutando. Così le varie parti dell’Ordinarium Missae, Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei, oltre a denotare una struttura autonoma, cioè ogni brano dà l’idea di essere compiuto in sé, rivelano una configurazione tonale abbastanza inedita per l’epoca. Ed è qualcosa che risalta ancor oggi, merito del Coro e Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala diretti da Christoph Eschenbach, Alberto Malazzi direttore del Coro, Oreste Cosimo tenore, Dongho Kim basso.

  Mozart è presente con composizioni sacre e profane del periodo giovanile e tardo, il fresco “Misericordias Domini” e il più severo “Ave Verum Corpus” (alla vigilia della sua morte, 1791), entrambi eseguiti da Eschenbach, e il “Concerto per violino e orchestra n.4”. Assolutamente delizioso, un Allegro sognante con una linearità melodica che, nell’assolo di violino, diventa virtuosismo poetico, un Andante cantabile dove il dialogo orchestra-violino assume toni idilliaci ed un Rondeau finale di morbida tessitura. Il Concerto è una composizione giovanile dai toni brillanti, festosi, intriso di quel famoso spirito “olimpico” che ha reso immortale la musica di Mozart. Di giusta misura il tocco di violino di Ksenia Dubrovskaya e la World Peace Philarmonic diretta da Justus Frantz, noto anche come abile pianista (le sue eccellenti interpretazioni dei concerti di Mozart). E di nuovo lui dirige la “Sinfonia n.3” di un grande tardo romantico, Anton Bruckner. Sinfonia nota anche come “Sinfonia di Wagner”, che il musicista, suo amico ed estimatore, gli dedicò (e così l’Adagio della “Settima”, in morte del maestro di Bayreuth).

  Quattro movimenti in cui si racchiude quell’epica bruckneriana che tende ad un assoluto quasi mistico, con situazioni di grande forza emotiva (vedi, in particolare, la “Sinfonia n.4, Romantica”, la già citata “Settima” e il “Te Deum”). E nell’inizio, “Misterioso”, è come un baluginìo di riflessi, un chiarore che prende corpo e disvela un paesaggio insieme dolce ed aspro. La tipicità del “melos” bruckneriano, un fiume carsico che ogni tanto affiora ed è un susseguirsi di piano e di forte, un magma ribollente in cui s’avverte il palpito della terra. E se l’Andante è gonfio e denso e sembra sfociare in un lago di pulviscolo dorato, subito lo “Scherzo” segna il ritorno alla fase di moto, dove è un’alternanza di attimi di quiete e sfoghi selvaggi. Infine l’Allegro, che suggella il contrasto con una violenza però rattenuta, ed è un fluire epico che lascia senza fiato chi ascolta. Ed esalta il pubblico per la magnifica performance di Justus Frantz alla guida della World Peace Philarmonic.

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  Dunque, ma non c’erano dubbi, ottima riuscita di questo XV° Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra che ha soprattutto avuto il merito di aver riproposto composizioni poco eseguite, in particolare lo “Stabat” di Boccherini e poi Rossini e Puccini (pure la Terza di Bruckner latita un po’).  Ma sono soprattutto le cadenze della “Nona” di Beethoven che restano nelle orecchie e nell’animo di chi è stato presente ai concerti, l’Inno alla Gioia, “Freude, schoner Gotterfunken”. La Gioia, di questo abbiamo bisogno ora, in un momento storico di grande confusione: noi, il nostro paese, l’umanità tutta…

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