Il Carro del Principe torna a Fara in Sabina
Il Carro del Principe torna a Fara in Sabina
di Antonio Mazza
All’inizio degli anni ’70 dello scorso secolo venne iniziata una campagna di scavi nella necropoli di Colle di Forno, nell’area compresa fra Montelibretti e Fara in Sabina, dove sorgevano Cures ed Eretum, due mitiche città sabine. Purtroppo la tomba XI, quella più importante, la sepoltura di un alto dignitario, era stata violata e il suo ricco corredo immesso sul mercato clandestino. Si trattava di un carro, il cosiddetto Carro del Principe, un magnifico lavoro eseguito da maestranze etrusche, VII secolo a.C., il periodo orientaleggiante, che riapparve alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen. Iniziò un lungo contenzioso che vide impegnati il nostro Ministero della Cultura e il nucleo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Finalmente, nel 2016, il Carro del Principe fu restituito all’Italia ed esposto agli Uffizi, poi alla Camera dei Deputati ed infine a Rieti.
Ora il Carro è tornato a Fara in Sabina, nel museo archeologico ospitato nel quattrocentesco Palazzo Brancaleoni, riunendosi ad altri reperti che i tombaroli avevano tralasciato e che risultano pertinenti all’insieme. A differenza dell’allestimento danese, che non teneva conto dei materiali di epoca diversa (la tomba era stata in uso fino ad almeno il V secolo a.C.) e quindi non v’era distinzione nei corredi, la ricostruzione attuale è avvenuta con cura filologica, permettendo così una lettura completa. Che risulta di indubbio fascino per bellezza ed eleganza, a cominciare dal calesse da parata con le sue lamine rivestite di bronzo decorate a sbalzo, raffinata opera di un’officina ceretana, manifattura etrusca del VII secolo a.C. Sull’intelaiatura del carro sono state ricomposte le placche orizzontali nella parte posteriore e quelle verticali nelle fiancate laterali, restituendo quella che doveva essere l’immagine originale. L’effetto è superbo, con le superfici dove sono effigiate immagini fantastiche, animali mitici, figure antropomorfe.
Al centro Tifone, mostro figlio di Gea e Tartaro, personaggio metà uomo e metà pesce, qui rappresentato come una sorta di tritone, comunque un misto fra divinità marina e divinità infernale. Ha le ali, dalla testa fuoriescono serpenti, tipo Medusa, e in ogni mano regge un animale, a sinistra una tartaruga, con collo e becco di anatra, a destra un coniglio (nei riquadri accanto replica di Tifone con due geni e una sfinge alata). Raffigurazione molto complessa che trova il suo riscontro, meno elaborato ma non per questo meno suggestivo, nelle lamine in verticale, anch’esse decorate con animali fantastici, sfingi, cavalli alati, chimere. Assolutamente spettacolare, con quello che resta dei “prometodipia” (bardature del capo dei cavali) e “prostermidia” (pettorali) che completano il disegno ricostruito del carro. E poi ci sono i resti del corredo funebre all’epoca ignorato dai ladri, corredo del VII secolo con testimonianze anche femminili (cerchi bronzei, un vassoio- incensiere). Né manca, come in tutte le tombe di rango, l’oreficeria, VII secolo, dove spicca un raro pendaglio in argento con castone girevole di squisita fattura al cui centro è inserito un elemento in ambra (di integrazione moderna) con incise figure fantastiche.
E non dimentichiamo il secondo carro che non venne esposto nella Glyptoteca di Copenhagen. E’ il “currus”, il cocchio da guerra, dove il conducente stava in piedi al contrario dell’altro che fungeva da carro di parata con il guidatore e due passeggeri seduti. Del “currus” si possono ammirare, montati sull’intelaiatura ricostruita, una ruota quasi integra ed i coprimozzi. Completa la mostra un oggetto non pertinente alla sepoltura ma comunque notevole, un’anfora di manifattura etrusco-corinzia con raffigurazioni di animali del VII-VI secolo a.C. che fu donata dai trafficanti ai danesi come “premio” per l’alto prezzo chiesto per le lamine del carro. Attribuita al Pittore della Sfinge Barbuta non se ne conosce la provenienza, quindi un pezzo decontestualizzato, ed è questo il danno maggiore fatto dai tombaroli, che sradicano gli oggetti dal luogo originario e ne impediscono così la storicizzazione.
L’inaugurazione del museo è stato motivo di festa per l’intero paese di Fara in Sabina, cerimonia preceduta da una vivace conferenza nella Collegiata di Sant’Antonino alla quale erano presenti il Sindaco Roberta Cuneo, la Soprintendente Architetto Lisa Lambusier, il Funzionario Archeologico Francesca Licordari, i Consulenti scientifici Paola Santoro, Adriana Emiliozzi, Enrico Benelli, il Direttore del Museo Alessandra Petra, presentazione condotta dal giornalista Paolo Di Lorenzo. Punto focale la reintegrazione nel territorio di un bene indebitamente sottratto, bene che è parte della sua identità storica, ora simbolicamente ricostruita nel museo che ha anche e soprattutto la funzione di ampliare l’offerta turistica dell’area sabina. Il museo di Fara che, con il suo magnifico Carro del Principe, fa da controcanto alle opere d’arte racchiuse nella Collegiata, in particolare la bella “Deposizione” di Cola dell’Amatrice, che il Vasari definì “Maestro raro e del migliore che fosse mai stato in que’ paesi”.
Per informazioni: 0765/277321 Ufficio turistico
e visitfarainsabina.it
Interessante scoprire questi oggetti restituiti a noi..frutto di scsvi clandestini..e riportati in itslia in situ per costitutire la base di piccoli deliziosi musei locali…complimenti per l articolo preciso ..come al solito…stimolante per la visita del piccolo borgo sabino