Eretum, importante centro sabino del Latium vetus, più volte in conflitto con Roma e in stretti rapporti con i vicini etruschi. Eretum, forse l’area dell’attuale Montelibretti, dove nella Tomba XI della necropoli di Colle del Forno fu rinvenuta la ricca sepoltura di un principe sabino. Ma i tombaroli ne trafugarono il contenuto che passò da un trafficante all’altro fino ad approdare alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen. Il carro con il suo magnifico corredo costituì l’asse portante di un’esposizione sulle civiltà italiche del Mediterraneo antico e fu proprio allora che iniziò una lunga querelle con l’Italia. Finalmente, nel 2016, grazie all’intervento dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale (illecita esportazione) e all’accordo fra il nostro MIBACT e la Ny Carlsberg Glyptotek il carro tornò a casa, esposto prima agli Uffizi e poi a Montecitorio. E ora è qui a Rieti, ospitato dalla Fondazione Varrone nell’elegante Palazzo Dosi, una mostra splendida, l’ultima prima della sua definitiva collocazione nel Museo Civico di Fara in Sabina (la sabina Cures).
E splendido è l’aggettivo che viene in mente ammirando i reperti del carro o calesse da parata, di una bellezza unica, datata quasi tremila anni. Si tratta di lamine di rivestimento di bronzo decorate a sbalzo, raffinata opera di un’officina ceretana, manifattura etrusca del VII secolo a.C., il periodo orientaleggiante, la fase più densa, soprattutto culturalmente, della civiltà dei Rasenna. Strisce verticali e placche orizzontali dove sono effigiate immagini fantastiche, animali mitici e figure antropomorfe. Colpisce in particolare la lastra con al centro Tifone, mostro figlio di Gea e Tartaro, un personaggio metà uomo e metà pesce qui rappresentato come una sorta di tritone o comunque un misto fra divinità marina e divinità infernale. Ha le ali, dalla testa fuoriescono serpenti, tipo Medusa, e in ogni mano regge un animale, a sinistra una tartaruga (ma il collo e il becco sono di anitra) e un coniglio a destra. Una raffigurazione molto complessa e, per questo, affascinante, che trova il suo riscontro, meno elaborato ma sempre suggestivo, nelle lamine in verticale, anch’esse decorate da animali fantastici. Sfingi, cavalli alati, chimere e allora non puoi non vedere e considerare il tutto quasi come un anticipazione del bestiario medioevale, gli incubi e le ombre dell’inconscio collettivo proiettati nel marmo delle cattedrali.
Gli altri reperti non fanno che confermare questa sensazione, affascinando e seducendo il visitatore con immagini di incredibile potenza espressiva. Come, ad esempio, nel gruppo di lamine in verticale, il riquadro con incisa una sorta di cammello la cui parte anteriore è umana, il volto fisso in avanti. E l’incanto prosegue osservando un magnifico pendente ellittico in argento a cartiglio mobile al cui centro è un castone in ambra con figure fantastiche (meno spettacolare ma comunque bello un secondo pendente in oro con raffigurata una paperella). Entrambi, come tutto il resto, provengono dalla tomba XI di Colle del Forno dove vennero deposte le ceneri del principe (prima di lui vi fu sepolta una nobile sabina il cui corredo è qui esposto). Il materiale pertinente alla vita quotidiana è introdotto da un’anfora etrusco corinzia del pittore vulcente della Sfinge Barbuta (non riconducibile alla Tomba XI, un omaggio dei tombaroli agli acquirenti e, ancora una volta, la conferma del danno storico da essi compiuto, cioè la decontestualizzazione dei reperti antichi). Ecco un’infundibulum, sorta di sversatoio, un olpe ed una patera in bronzo, alari, spiedi, un bacile, ceramiche e buccheri per la conservazione degli alimenti, un coperchio con presa a pantera.
Che dire poi di un’altra lamina dove compare una sfinge alata che ricorda molto le sculture assire? Né sono meno intriganti i finimenti bronzei relativi ai cavalli, i “prometopidia”, le bardature del capo, la testiera e il morso, e i “prosternidia”, i pettorali. In un angolo, la ricostruzione del “currus”, il carro da guerra, i cui cerchioni sono pressoché integri (entrambi i veicoli appartenevano al principe). E questa immagine che travalica il tempo conclude una mostra assolutamente da vedere, non solo per la bellezza in sé, ma perché traccia un filo rosso con i nostri remoti antenati (gli Etruschi sono i nostri “nonni”). E, quale corollario, Rieti con le sue notevoli attrattive, come il Duomo con il battistero e il museo diocesano, quello civico con le sue tre sezioni (archeologia, pinacoteca, scultura), l’intatta cinta muraria. E magari spingersi verso i santuari francescani, a pochi km di distanza.
Dunque la cultura dopo la pandemia e questo Carro di Eretum può davvero essere l’inizio di un discorso nuovo, come ha suggerito il presidente della Fondazione Varrone Antonio D’Alessandro. Il nostro paese è un museo diffuso dove si sono stratificate le ere storiche lasciando il loro messaggio che è soprattutto culturale ed è dalla conoscenza del passato che bisogna ripartire per costruire il futuro.
“Strada facendo. Il lungo viaggio del Carro di Eretum”, a Rieti, Palazzo Dosi, fino al 10 ottobre, da martedì a domenica h.17-20, con prenotazione obbligatoria su eventbrite. Curatori della mostra Alessandro Betori, Francesca Licordari e Paola Refice, soprintendente della Sabap per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti. Allestimento di Daniele Carfagna, autore dell’originale colonna sonora che accompagna i visitatori.
Magnifico, che bello leggere queste cose!
Grazie