Il Bello secondo Guido
Il Bello secondo Guido
di Antonio Mazza
Guido Reni e Roma. E allora, per riflesso condizionato, evochi l’immagine dell’altar maggiore della basilica di San Lorenzo in Lucina, in Campo Marzio, con la sua splendida crocifissione. Sullo sfondo un paesaggio cupo e spento e tuttavia da quel Cristo in primo piano non sembra trasparire un’aura di morte, bensì una rassegnazione pacata che si sublima in un figurativismo compositivo di estrema bellezza. Ecco, la grazia, il tocco delicato e al contempo deciso che, nella Roma del ‘600, cantiere delle arti (la terna Bernini-Borromini-Pietro da Cortona, il caravaggismo al suo apice, Domenichino, Lanfranco, Guercino, ecc. E poi la musica, con Carissimi, Frescobaldi, Benevoli ed altri), impone il giovane Guido che si era formato a Bologna, alla scuola dei Carracci, rivelando presto una forte personalità. Nell’Urbe realizza opere notevoli, di soggetto religioso (“Il martirio di Santa Cecilia” nella chiesa omonima, “Crocifissione di San Pietro” in San Paolo alle Tre Fontane) e profano (“Aurora” nel casino Rospigliosi, “Storie di Sansone” nei palazzi vaticani). E Roma, grazie al recupero sul mercato antiquario di un’opera dispersa, lo celebra svelando un suo aspetto poco noto, che dà il titolo alla mostra in corso alla Galleria Borghese: “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura”.
Più di trenta opere distribuite all’interno, un percorso di grande fascino che inizia nell’imponente salone d’ingresso, dove ogni cosa già esprime bellezza, dal soffitto affrescato ai mosaici pavimentali, alle sculture e busti alle pareti. E qui ti accoglie la “Crocifissione di San Pietro”, che ovviamente vien da paragonare a quella del Caravaggio in Santa Maria del Popolo. Sì, v’è un qualche sapore del Merisi, soprattutto la parte inferiore del quadro, ma oltre alla diversa struttura narrativa (Guido in verticale, l’altro in orizzontale) si avverte un gusto diverso, più tendente ad una visione classica dove i soggetti rappresentati hanno un che di ieratico. Come appare più evidente nel “Martirio di Santa Cecilia”, composizione di soave freschezza nonostante la drammaticità del tema. Il carnefice sta per decapitare la giovinetta, in cielo due piccoli angeli si apprestano a riceverla nella gloria e tutto, a cominciare da lei, con la sua ispirata rassegnazione, esprime un’aura di calma solennità.
La compostezza classica, il gesto mai esagerato, perfetto, questo avverti scorrendo le altre opere nel salone, come lo “Stendardo della Confraternita delle Sante Stimmate”, con il suo San Francesco in estasi, e “Il martirio di Santa Caterina di Alessandria”, che riprende lo schema precedente ma in maniera più articolata per quanto riguarda i personaggi (articolato è anche, ma decisamente più di maniera, “Trinità con la Madonna di Loreto”). E il senso di una serenità intrinseca alla scena rappresentata si conferma nella sala di Paolina, “Paolo rimprovera Pietro penitente”, i due apostoli come colti in un fermo immagine dal morbido cromatismo, e “David con la testa di Golia”, che dialoga con il suo omonimo scolpito dal Bernini, questo corrusco e deciso, l’altro che osserva sereno il capo appena reciso del nemico (il dialogo continua anche con Battistello Caracciolo, che sviluppa lo stesso tema). E’ questo il tratto distintivo di Guido Reni, la sua olimpicità che verrebbe quasi da definire mozartiana se non fosse in anticipo di centocinquant’anni, una raffigurazione del Bello non conclusa in sé e quindi oggettivamente sterile ma come sorpresa in un suo slancio vitale che ha qualcosa di scultoreo. Come le due figure che s’intrecciano in “Atalanta e Ippomene”, con la loro dirompente fisicità, la gioventù dei corpi, ovvero la celebrazione dell’attimo fuggente.
Più complesso e di forte tensione plastica la “Strage degli innocenti”, dove si sublima la lezione della pittura emiliana ma anche quella di Raffaello, il colore, la struttura compositiva, il dinamismo d’insieme (e così “Lot e le figlie”, dove l’attenzione non può non concentrarsi sul linguaggio delle mani). Ed ecco infine, , nella Loggia di Lanfranco, il quadro ritrovato, la “Danza campestre”, delizioso olio su tela che parla di un Reni finora inedito. Contadini e borghesi fanno cerchio intorno ad una coppia che balla sull’aia e, sullo sfondo, il tramonto che bagna un paesaggio rurale di dolce incanto. Evidente l’influsso dei fiamminghi, che Guido ben conobbe, soprattutto Paul Bril, con il quale lavorò nel casino del palazzo Pallavicini Rospigliosi (all’epoca del cardinale Scipione Borghese nella cui collezione figurava il quadro). Un piccolo grande capolavoro tornato a casa, che figura in compagnia di opere di soggetto agreste, fiamminghi (Bril) e non (Agostino e Annibale Carracci, Giovanni Battista Viola, Pietro Paolo Bonzi, Giovan Francesco Grimaldi e il Domenichino). Opere, peraltro, di buona fattura.
Interessanti anche alcuni oli su rame di Guido Reni, “San Girolamo con due angeli in un paesaggio”, “Ritorno dalla fuga in Egitto” ed episodi della vita di Sant’Apollonia, dove le suggestioni raffaellesche sono più evidenti che altrove. Francesco Albani, pittore con il quale Guido collaborò nell’affrescare la Cappella dell’Annunziata, piccola perla incastonata nel palazzo del Quirinale (insieme a loro anche Lanfranco), chiude la mostra con quattro tele di tema mitologico, le stagioni e gli dei. Che, in fondo, è come un prezioso corollario all’opera ritrovata, dove uomini e natura appaiono in perfetta simbiosi, quale oggi dovremmo tornare ad essere, prima che sia troppo tardi.
“Guido Reni. Il Sacro e la Natura” alla Galleria Borghese fino al 22 maggio. Da martedì a domenica h.9-19, biglietto intero euro 13, ridotto 18-25 anni euro 2. Prenotazione obbligatoria. Per informazioni www.galleriaborghese.it . La mostra è a cura di Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria.
Inserire un commento