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I Wiener al festival di Musica Sacra

Justus Frantz_2  Ormai sono anni che i Wiener Philharmoniker compaiono nei programmi del Festival di Musica Sacra, ospiti graditissimi che attirano sempre un folto pubblico. Diciamo che sono il fiore all’occhiello della manifestazione e, con la loro bravura, ogni volta incantano perché sanno trasmettere come pochi il profondo messaggio della musica che è soprattutto amore, solidarietà, comprensione. Per questo, anche se non interpretano brani strettamente “sacri”, sono i principali protagonisti del Festival, in quanto la profondità delle loro esecuzioni travalica il confine fra un genere musicale e l’altro e diventa comunque “sacra” (vedi, nelle passate edizioni, il Parsifal di Wagner o la Settima di Bruckner). E parliamo subito di loro, non rispettando l’ordine cronologico dei concerti.

  In programma, nella Basilica di San Paolo, l’Ottava e la Settima Sinfonia di Ludwig Van Beethoven. Le compose entrambe nel 1812, quando  la sordità era quasi completa, tanto che teneva fra i denti una bacchetta di legno la cui estremità poggiava sulla cassa di risonanza del pianoforte. Ormai la musica la sentiva “dentro” eppure riuscì a realizzare opere sublimi, dal 5° concerto “Imperatore” alla Missa Solemnis ed alla Nona e, frammezzo, le due sinfonie in programma. L’Ottava ha un timbro decisamente solare e ciò traspare subito dall’iniziale Allegro vivace, quasi in corsa, con il tema che s’apre in continue fioriture sonore scivolando poi nel secondo movimento, tutto uno zampillare d’armonie che nel Minuetto prende corpo e s’impone con un eleganza di toni che nell’Allegro finale diventa un momento di serena esaltazione.

  Al contrario la Settima è più raccolta ed intimistica e lo si deduce sin dall’inizio, pieno e solenne, con aperture progressive che lasciano intuire un ritmo superiore ed eccolo farsi largo a ondate successive, con un che di struggente, un vortice che si placa nello stupendo Allegretto, con il suo incedere quasi liturgico, a chiazze di luce, di soave bellezza. Né sono da meno il terzo tempo, che dà l’idea delle nuvole in movimento, accese da riflessi di sole, e l’Allegro conclusivo, una trascinante (e coinvolgente) cavalcata sonora che è un inno alla vita (e vien da pensare, per analogia, alla “Jupiter” di Mozart). Magnifica l’esecuzione dei Wiener che hanno regalato al pubblico un graditissimo bis, l’ouverture dell’ “Egmont”, dedicata a Goethe (per la sua tragedia), limpido canto di libertà, di un romanticismo musicale che anticipa Schumann, con quel finale di sconvolgente bellezza. E ora gli altri.

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  L’inizio nel modo migliore in San Pietro, con la “Missa solennelle en l’honneur de Sainte-Cécile”, di Charles Gounod, di profonda religiosità, come risulta soprattutto dal “Credo”, non solo una bella pagina musicale ma una testimonianza di ricerca mistica (quale caratterizzò l’ultimo periodo della vita di Gounod). E si passa poi al presente, “Messa di Padre Rupert Mayer”, di Hans Berger, dedicata ad un’eroica figura di gesuita che si oppose al nazismo e fu più volte internato. Una Messa d’impostazione classica, con un’introduzione quasi alla veneziana, e passaggi rimarchevoli, come il delicato Credo, l’Offertorio, il Santus, l’Agnus Dei, un clima festoso che s’intreccia con la celebrazione della Santa Messa celebrata dal Cardinale Angelo Comastri e il “Canto Orasho”. Si può definire, questa, una curiosità
antropologica, il gregoriano che s’innesta nella tradizione giapponese, con effetti suggestivi, di canto medioevale (tipo il “Laudario di Cortona”). Ottima l’esecuzione, Hans Berger e il Montini-Chor Ensemble per la “Messa di Padre Rupert Mayer” e l’Illuminart Philarmonic Chorus diretto da Tomomi Nishimoto per il “Canto Orasho”.

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  Di nuovo a San Paolo con Arvo Part, compositore estone che fonde tecnica d’avanguardia (“stile tintinnabuli”, ideato da lui) e vena contemplativa strettamente ortodossa (vedi il “Te Deum”). Questo, all’epoca, durante la dominazione sovietica lo costrinse ad emigrare, ottenendo altrove il meritato riconoscimento e, in effetti, un brano come quello proposto, “Fratres”, arso e rarefatto, con il violino (l’ottima Ksenia Dubrovskaya) che scava dall’interno, lo conferma in pieno. Come una preghiera sospesa e, in un certo senso, lo è anche la 2° Sinfonia di Mahler, “Resurrezione”. Poderosa, un po’ ridondante se vogliamo e tuttavia pervasa di una forte tensione spirituale sin dal primo movimento, con echi bruckneriani, il crepuscolo che precede l’alba e annuncia la vita che pulsa nelle voci del contralto e poi del soprano e del coro, in un crescendo che talora si spezza per riprendere con forza sul filo di una drammaticità rattenuta, sino all’epico finale. La 2° come le altre sinfonie e tutta la produzione mahleriana è un tardo romanticismo che supera se stesso indicando nuove prospettive (non a caso fra gli allievi di Mahler figura Schoenberg). Dunque una musica non facile ma diretta con mano felice da Justus Frantz, noto anche come pianista (di lui ricordo i concerti di Mozart  incisi con il Bamberger Symphoniker), coadiuvato dalla Philarmonie der Nationen e il Coro Statale di Kaunas, Maria Ariya soprano e Angelina Shvachka contralto.

  L’ecumenismo è il tema della serata a Santa Maria Maggiore, un incontro musicale fra cattolicesimo e chiesa protestante. Il Coro della Cappella Sistina diretto da Massimo Palombella apre con un programma incentrato sulla Scuola Romana, in primis il grande Palestrina con “Ad te levavi” e “Sicut cervus”, la severa dolcezza della sua scrittura polifonica, cui fa seguito il bel “Miserere” di Gregorio Allegri, quello che Mozart fanciullo trascrisse integralmente a memoria. Un canto dell’anima  riproposto dal “Credo” di Giovanni Bonato, tutto un magico riverberìo di voci che si configura come una moderna “passio” (scritta nel 1961) di forte suggestione. E ancora i tempi nostri con il notevole St.Jacob Kammarskor di Stoccolma diretto da Gary Grant che esegue “Concerto for Choir” di Alfred Schnittke, una preghiera al contempo dolce e violenta, di confronto con un Dio imperscrutabile, e “Memento Creatoris tui”, di Michael Waldenby, a voce decentrate. E poi il momento-simbolo, i due cori insieme, cattolici e luterani uniti in un comune afflato ecumenico che interpreta il messaggio universale di Papa Francesco.

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  C’era molta curiosità per la “Toccata, canzone e fuga in re maggiore per organo a canne” di Giovanni Allevi, in prima assoluta nella basilica di Sant’Ignazio. E’ una lunga meditazione sviluppata in una iniziale forma quasi classica (l’apertura sembra Pachelbel) che gradualmente si fa più elaborata, a tratti con cadenze quasi pop, sino alla conclusione fugata. Una composizione impegnativa, abbastanza compatta nella prima parte, un po’ smagliata nella seconda, ma comunque interessante. Per Allevi è un omaggio a Bach che ritroviamo nei Quattro Contrappunti dell’Arte della Fuga, pietra miliare nella storia della musica, magistralmente interpretati da Leo Kramer (e il corale “Von Deinen Thron”, dettato dal compositore ormai cieco al suo allievo). E poi la Sonata n.6 di Mendelssohn al quale va il merito di aver riscoperto Bach nell’800, quando era caduto nell’oblìo, e nel segno di un grande genio, che ha parlato del sublime all’umanità, si è degnamente concluso il XIV Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra.

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