I giorni dell’ira
I giorni dell’ira
di Antonio Mazza
Ivan Bunin, il primo scrittore russo a ricevere il Nobel, nel 1933, in esilio, avendo lasciato il paese dopo la rivoluzione d’Ottobre. Aveva parteggiato per i Bianchi contro i bolscevichi ma, in realtà, sia per la sua estrazione sociale, nobiltà terriera decaduta, sia per la sua formazione culturale, era ideologicamente estraneo agli eventi che sconvolsero la Russia dei suoi anni. Nato a Voronez nel 1870 visse gli eventi che stavano trasformando radicalmente una società arretrata e patriarcale: l’imperfetta riforma dei servi della gleba, i moti nichilisti e l’assassinio dell’imperatore Alessandro II, i fermenti rivoluzionari che culminarono nella domenica di sangue del 1905. Lui era un giovane poeta e scrittore di racconti, frequentava i circoli letterari, amico di Cechov e Gor’kij, apprezzato per il suo stile intriso di un vitalismo un po’ sognante, dove l’amore per i personaggi stempera in quello più vasto per la sua terra russa (per due volte insignito con il premio Puskin). Un sognatore, appunto, e non può reggere l’urto della profonda lacerazione storica prodotta dai drammatici giorni d’Ottobre, quella violenza rivoluzionaria che lo spinge all’esilio nonché a scrivere uno dei suoi libri più sofferti, “Giorni maledetti”. Un libro caduto nell’oblìo come, ingiustamente, il suo autore, riproposto dalla editrice Voland con l’ottima prefazione e traduzione di Marta Zucchelli.
La prima parte, Mosca 1918, è diario e insieme cronaca, appunti redatti con un linguaggio scarno, quasi giornalistico, dove traspare un quotidiano sconvolto dal caos rivoluzionario. La cacciata di Kerenskij da parte dei bolscevichi e la pressione sul fronte ovest delle truppe tedesche hanno creato un clima di instabilità a tutti i livelli. La struttura sociale della Russia zarista è crollata, la borghesia è sotto accusa e nelle strade s’improvvisano comizi mentre gli alloggi vengono requisiti. Crisi economica e violenza dilagano, mentre fra le varie fazioni che si disputano il potere (bolscevichi, menscevichi, social rivoluzionari, anarchici) è una situazione di stallo che può, da un momento all’altro, sfociare in un bagno di sangue. In questa cornice di precarietà umana e politica, dove si susseguono le voci più disparate (Lenin recluso nel Cremlino, Trockij spia tedesca) e avvengono esecuzioni sommarie, pure operano circoli culturali d’avanguardia (il clima artistico, soprattutto per quanto riguarda la poesia, è ancora impregnato di Cubofuturismo e Acmeismo mentre l’Imaginismo muove i primi passi). Ma Bunin non li frequenta, anzi li disprezza, criticando personaggi come Aleksandr Blok (“I dodici”, poema fra mistico e ideologico) e Vladimir Majakovkij (“Al ginnasio veniva chiamato Idiot Polifemovic”, Idiota figlio di Polifemo).
Odessa 1919, la seconda parte del libro, meno diaristica e frammentaria e più incentrata sugli avvenimenti. Se per i bolscevichi Libertà e “Uomo nuovo” sono parole sacre per Bunin risultano gusci vuoti, che una masnada di violenti e di convertiti dell’ultima ora, gli opportunisti di sempre, cerca di riempire di significati. “La potenza e la bellezza del mondo dei lavoratori”, l’esaltazione del proletariato e la fine dei privilegi della borghesia, ma lui vede solo arroganza e una nuova aristocrazia (rossa) al potere. Della figura del rivoluzionario ha un’impressione negativa, quasi in termini antropologici, di fattezze volgari e soprattutto ignorante, che giudica assolutamente incapace di costruire un futuro di fraternità per la Russia (tema sviluppato anni dopo da Bulgakov in “Cuore di cane”, satira di una metamorfosi -umana e politica- mai avvenuta. Ovviamente inviso al regime e bloccato dalla censura). Non aderisce alla Proletkul’t, Organizzazione culturale-educativa proletaria, per un’arte proletaria, auspicate da Bogdanov e Lunacarskij, e per i Soviet che si costituiscono ovunque prova una ripugnanza quasi fisica. Nota inoltre che “La lingua si guasta, è malata anche tra le masse popolari” e spunta una sorta di “archeorusso” che, lui così attento alla forma, considera con disprezzo.
Lo sfacelo attuale lo porta ad interrogarsi sulla storia russa e sull’animo russo e ne trae una sensazione di netta sfiducia, poiché l’una e l’altro si condizionano a vicenda, il corso degli eventi intrecciato ad un carattere nazionale instabile, che oscilla fra misticismo e furore. Ne risulta una sorta di rassegnazione inquieta, un fatalismo che è attesa, come traspare dalle migliaia di pagine scritte prima di quel fatidico Ottobre, Cechov in primo luogo. C’è, c’era, un “prima” e ora c’è un “dopo”, fatto questo di follia collettiva, come la vede Bunin, il cui denominatore comune è l’odio per la borghesia e i suoi privilegi. Di certo la situazione appare caotica, le strade, buie di sera, sono di giorno percorse da camion carichi di soldati e da una folla spesso cenciosa, i prezzi tendono a salire, le requisizioni continuano e si acuisce lo scontro fra l’Armata Rossa e i Bianchi. Frequenti anche i pogrom, condannati dai vertici del partito (“L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”, diceva Lenin).
Vede un’analogia con la rivoluzione francese, i cui originari impeti libertari erano poi naufragati in un buio periodo di terrore, dove si sospettavano oppositori ovunque, la stessa paranoia riguardo ai “nemici del popolo” che qui, nella Russia in fiamme, porta alla costituzione della CEKA, la polizia segreta (un corpo che spesso agisce abusando dei suoi poteri). Bunin stesso, per aver manifestato dei dubbi sulla “sovranità popolare”, ed essendo di ceto nobile ancorché decaduto, è guardato con sospetto. La guerra civile infuria, si sopravvive con difficoltà in un ambiente dove manca tutto e dove si respira solo aria avvelenata, finché la sconfitta dei Bianchi e il timore per la propria incolumità spingono Bunin a lasciare Odessa. Va verso un esilio che sarà definitivo, e una parte di quegli appunti sui giorni della rivoluzione, nascosti come gli altri per evitare accuse di disfattismo politico, andranno irrimediabilmente perduti (“I foglietti che seguivano li ho nascosti così bene da qualche parte nella terra che, prima di fuggire da Odessa, alla fine di gennaio 1920, non sono più riuscito a trovarli”).
Dunque cronache di una catastrofe, redatte con uno stile scarno e asciutto, ben diverso da quello solito, arioso ed elegante, che aveva sancito la fama di Bunin. Non la tenerezza che filtra dalle sue pagine e tuttavia, in sprazzi improvvisi, frammenti di luce nella nebbia che sovrasta il paese, si ritrova una vena che rimanda al “Signore di San Francisco”, il suo primo successo, o “L’amore di Mitia”, i racconti, le poesie. Solo attimi fugaci, inebrianti, “Quando tramonta il sole, la città assume un aspetto mistico e misterioso, fa venire i brividi”, o malinconici, “Spesso facciamo un salto anche in chiesa, e ogni volta ci assale un’estasi commossa di fronte al canto, agli inchini dei ministri del culto, al gesto dell’incensazione, a tutta questa magnificenza, al contegno, alla pace di tutto ciò che è buono e misericordioso, dove con tenerezza si è confortati, ogni sofferenza terrena viene lenita”. Ecco il punto, il legame con la Santa Russia della tradizione che lui, aristocratico nello spirito e come ceto sociale, non può e non vuole infrangere, il paese e la sua gente, la ricchezza dei costumi, la mitezza della campagna e i suoi contadini, “gli sconfinati spazi russi” (è un po’ la “Rus” che canta Esenin, ma in tono ed in una prospettiva ben diversi).
Tutto questo per lui è certezza, un equilibrio che viene infranto dalle giornate d’Ottobre, irreversibilmente, naufragando in quella che percepisce come una nuova barbarie. E se questo in parte è vero, perché un evento traumatico come la rivoluzione fa emergere il lato oscuro e negativo dell’apparato sociale, legalizzando anche l’arbitrio, per Bunin lo è in senso assoluto. Teppa colorata di rosso, da Lenin a Trockij, ai commissari del popolo, ai semplici soldati, usando toni descrittivi talora di sapore quasi lombrosiano (vedi pagg.184-5). Il libro ne risulta così inficiato, ben poco obiettivo, anzi, decisamente di parte, ma ciò nulla toglie al suo valore di testimonianza, documento vissuto di un momento storico eccezionale. “E infine ho pianto lacrime di feroce afflizione, e di una specie di morboso entusiasmo, dopo essermi lasciato alle spalle la Russia e con lei tutta la mia vita precedente e dopo essere sfuggito a questo mare di selvaggi”. Dall’esilio avrebbe assistito impotente alla buia notte staliniana che, di lì a pochi anni, sarebbe calata sulla sua amata patria, e con essa il terrore che avrebbe ferito a morte soprattutto la sua cultura (vittime illustri come Babel, Mandelstam, Mejerchol’d). Giorni maledetti che furono in parte mitigati dal XX Congresso del PCUS, quando Krusciov denunciò i crimini di Stalin, ma il “disgelo” culturale che ne seguì fu cosa molto blanda e i gulag, polizia politica e censura continuarono ad esistere ancora a lungo. Fino alla disgregazione di un regime ormai sclerotizzato e sempre più ai margini della Storia.
“Giorni maledetti”, di Ivan Bunin, Ed. Voland, pagg.224, euro 18,00.
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