Gustav il viennese
Gustav il viennese
di Antonio Mazza
Vienna fine ‘800 inizi ‘900, in pieno clima di Belle Epoque. Una capitale ricca, popolosa (due milioni di abitanti) e viva, centro nevralgico della Mitteleuropa, soprattutto culturalmente. Scienze e arti nel segno di tempi nuovi, Freud, Wittgenstein, Hoffmannstahl, Schnitzler, Musil, Werfel, Roth, Otto Wagner e, non ultimo, Gustav Klimt. Klimt e la Secessione viennese, movimento non solo pittorico che s’incunea fra tre altri grandi movimenti dell’arte figurativa europea, Impressionismo, Espressionismo e Futurismo, collocandosi in una posizione di ricerca stilistica che sconfina spesso nel preziosismo. Ed è appunto il caso di Klimt, ma un preziosismo non di maniera quanto piuttosto una prospettiva di linguaggio assolutamente inedita, come risulta dalla mostra a Palazzo Braschi, “Klimt. La Secessione e l’Italia”.
Fece frequenti viaggi nel nostro paese, veri e propri pellegrinaggi artistici, partecipando alla Biennale di Venezia del 1910 e premiato all’Esposizione Internazionale delle Belle Arti di Roma del 1911. Nato nel 1862 e formatosi alla scuola di arti e mestieri di Vienna Gustav inizia presto ad usare il pennello con successo, lavorando nella “Compagnia di artisti” con il fratello Ernst ed altri amici per commesse importanti, come l’apparato decorativo del Burgtheater e del Kunsthistoriches Museum di Vienna. In seguito, morto il fratello e sciolto il sodalizio, il 3 aprile 1897 fonda insieme ad altri pittori la Secessione viennese, che deve subito fare i conti con la censura (un Teseo nudo al quale le autorità impongono che vengano celati i genitali: le due versioni, originale e spurgata, sono esposte nella mostra).
“Ver Sacrum” è l’organo ufficiale del movimento che ha due anime, l’una realistica e l’altra tendente verso l’Art Nouveau, come Klimt. Il quale inizia a viaggiare in Italia e resta impressionato dai mosaici bizantini di Venezia e Ravenna, una suggestione che sedimenta nel corso di tutta la sua opera sublimandosi in un erotismo che, ovviamente, suscitò scandalo. Ed eccolo espresso nella sua opera più famosa, nonché icona della mostra, “Giuditta”, dove il profilo della donna raffigurata su sfondo oro sembra riassumere in sé il modello di “femme fatale” tipico dell’epoca. Ma quell’aggressività, anche e soprattutto figurativa, è solo apparente, poiché per Gustav la sensualità femminile si esprime in una grazia ed eleganza intrinseche, come traspare da opere come “Ragazza nel verde” o “Ritratto di signora con fondo rosso”.
Se la ritrattistica è il filone pittorico principale, pure Klimt si cimenta con altri generi, dipingendo con Franz Matsch le allegorie per l’Aula magna dell’Università di Vienna (distrutte durante la guerra e qui ricostruite digitalmente grazie alla collaborazione fra Google Arts e il Belvedere di Vienna) e il famoso fregio di Beethoven realizzato in occasione della XIV mostra della Secessione. E’ un lavoro corale ma la parte più corposa e significativa è di sua mano e svolge un tema allegorico che si sviluppa per 34 metri di parete. L’eterno conflitto fra Bene e Male, con il Cavaliere che, dopo aver sconfitto le Gorgoni e il mostro Tifeo, si congiunge all’Arte e alla Poesia, rappresentate come trionfo dell’Eros. Quindi la sua sublimazione e “L’anelito alla felicità”, fascinoso racconto iniziatico che suscitò ovviamente scandalo e venne rimosso ma, dopo lunghe e complesse traversie (e restauri), è giunto fino a noi e ne possiamo percepire il potere seduttivo nella grande sala dove è stato riprodotto fedelmente, l’Inno alla Gioia quale colonna sonora che gli conferisce quasi un che di mistico.
Di nuovo lo splendore di quegli ori, un balenìo come di gemme preziose che scava dentro e intorno alle figure risultandone un’apoteosi visiva che rimanda ai mosaici bizantini così amati da Klimt, in particolare Sant’Apollinare in Classe (ma è importante anche ricordare il padre, orafo e incisore, qualità che sicuramente hanno contribuito alla sua formazione artistica). Non gli manca, pur frequentandolo poco, il gusto del paesaggio, senza orpelli più o meno plastici, come dimostra la veduta di Malcesine sul Lago di Garda, stampa in collotipia (un affollato e colorito viluppo di case). La donna resta comunque il fulcro della sua produzione, di un’eleganza stilizzata come “Amiche” o di una istintualità voluttuosa come “Bisce d’acqua II” (opere esposte alla Biennale di Venezia del 1910). Qui appare evidente la tendenza ad un simbolismo che si infiora negli anni, imponendosi all’attenzione di pubblico e critica nell’Esposizione Internazionale di Belle Arti di Roma, 1911, fino a quel capolavoro incompiuto che è “La sposa” (un ictus stronca Klimt nel 1918).
E’ l’esaltazione della figura femminile nella sua dimensione erotica che si fa però calda ed intima, la comparsa della figura maschile nel cerchio muliebre conferendole un tratto più domestico (le gioie del matrimonio). Un intimismo che si collega ad altri due famosi lavori dell’ultimo periodo, “Johanna Staude”, di un acceso cromatismo, e “Amalie Zuckerkandl”, più sullo sfumato. E degli stessi anni è un altro capolavoro “Ritratto di signora”, dai tratti quasi espressionisti, rubato a Piacenza nel 1997 e misteriosamente recuperato nel 2019 (peccato non sia stato esposto “Le tre età della donna”, dove l’eros si ammanta dei colori del tempo. E’ comunque visibile alla Galleria d’Arte Moderna a Valle Giulia). Ma non è solo Klimt l’ospite di Palazzo Braschi, è tutto il fertile periodo della Secessione Viennese, con pittori di rilievo quali, ad esempio, Johann Victor Kramer (“Taormina alla luce del sole”, di fresco gusto mediterraneo), Carl Moll (il colorito e dinamico “Il Naschmarkt a Vienna”), Sebastian Isepp (il ricamo di “Ruscello d’inverno”), Franz von Matsch (il bel ritratto doppio di “Hermine e Klara Klimt”). In genere è un linguaggio che tende al naturalismo, il punto di partenza del giovane Gustav (vedi, a inizio mostra, “Vecchio uomo sul letto di morte”), ma non esclude altre soluzioni. Ed è il caso del fratello, Ernst, con “Paolo e Francesco”, di sapore quasi preraffaellita, o di Rudolf Junk, “Estate”, chiaramente divisionista.
La Secessione non operò solo in àmbito pittorico, allargando il suo impegno alla grafica e alle arti decorative, la ceramica, il design, realizzando anche sculture in marmo e bronzetti. Una sala raccoglie preziose testimonianze di quest’attività, con vetrine dove fanno mostra vasi, monili, oggetti di lusso, tutti di un’eleganza squisitamente Jugendstil, interpretazione nordica dell’Art Nouveau. E, infine, ogni cosa non poteva non riverberarsi in Italia, tappa prediletta dei secessionisti, e ne vediamo l’influsso su Giovanni Prini, Felice Casorati, Arturo Noci, Camillo Innocenti ed altri. In particolare Vittorio Zecchin, che con lo splendore abbacinato di “Corteo delle principesse” e “Principesse nel giardino” si rivela un klimtiano di ferro, per così dire. Ma è la Bellezza il motore di tutto, l’Eros quale suo cuore pulsante, e Gustav il pittore si considera il suo sacerdote, tanto da affermare “Chi sa vedere le cose belle è perché ha la bellezza dentro di sé”.
“Klimt. La Secessione e l’Italia, a Palazzo Braschi fino al 27 marzo 2022. Da lunedì a venerdì h.10-20, sabato e domenica h.10-22. Biglietto intero 13 euro, ridotto 11. Per informazioni e prenotazioni 060608, www.museodiroma.it, www.museiincomuneroma.it e www.arthemisia.it. La mostra è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, co-prodotta e co-organizzata da Arthemisia con Zètema Progetto Cultura, in collaborazione con Belvedere Museum e in cooperazione con Klimt Foundation.
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