Quando si parla di Barocco e dei suoi principali centri di irradiazione del verbo artistico, si pensa subito a Roma e Napoli, dimenticando che anche Palermo fu protagonista non indifferente di questo processo storico. Anzi, si può senza dubbio affermare che spesso entrò in competizione con le due città del “continente”, sviluppando un linguaggio tutto particolare nell’elaborazione della “maraviglia” barocca. E ne resta il fascino a tutt’oggi, lo stesso che incantò i viaggiatori del Grand Tour, ammaliati da una terra ricca di umori contraddittori artistici ma anche umani tanto da far scrivere al viaggiatore Goethe che “L’Italia vista senza la Sicilia non lascia nell’anima alcuna vera immagine di sé: qui soltanto si trova la chiave di tutto”.
L’architettura, la pittura, la musica, un tripudio di forme, colori e luce, una densità di elementi che, come uno scrigno segreto (che tale è rimasto fino alla riscoperta alla fine del secolo scorso), è racchiusa nelle composizioni di Bonaventura Rubino. Originario della Lombardia questi fu dapprima nell’Urbe, dove entrò nell’Ordine dei Minori Conventuali, assorbendo il clima musicale della Roma della prima metà del ‘600, dominata da Frescobaldi, Carissimi, Benevoli. Poi scese in Sicilia, dove rimase per il resto della vita, in qualità di “Magistro Musices in Cathedrali Panhormi”. E a Palermo, città assai propizia alla ricerca ed alla sperimentazione artistica, si dedicò alle sue fastose e spettacolari musiche di carattere sacro.
Se “La Rosalia Guerriera” risulta purtroppo dispersa, non così è per il magnifico “Vespro dello Stellario” (1644), composto per la “coronazione dell’Immacolata Reina”, la cui monumentalità squisitamente barocca, ardita costruzione vocale e strumentale, stupisce ancor oggi. Rubino fu definito “Novello Orfeo” e a Palermo, dove era membro dell’Accademia dei Riaccesi, un cenacolo d’intellettuali, la sua fama era indiscussa e così nel resto della Sicilia e nel Regno di Napoli. Ma col tempo, soprattutto dopo l’Unità, la cultura siciliana divenne un fatto periferico e molti artisti importanti vennero ingiustamente relegati quasi al rango di “provinciali” (è il caso del Serpotta, artista sommo). Rubino non sfuggì a questa coltre d’oblìo e perciò non si può non accogliere con interesse la sua “Messa de Morti à 5 concertata” (1653), proposta in prima mondiale dalla Cappella Musicale S.Maria in Campitelli diretta da Vincenzo di Betta, che, con fine gusto filologico, tende a ricreare un clima d’epoca (vedi anche la particolare esecuzione della Messa di Benevoli da me recensita su queste pagine).
Destinatario della commemorazione funebre è il Marchese di Spaccafurno, personalità di spicco dell’aristocrazia palermitana, celebrato con una grandiosità che però non ha alcunché di retorico (quel virtuosismo fastidioso di certa musica barocca). Anzi, il tutto rivela una mano molto abile nel dosare tempi e modi, musica e voci, con riferimenti stilistici alla Scuola Veneziana, in particolare Monteverdi e la sua “seconda prattica”, cioè un rapporto più omogeneo fra testi e musica. E lo si nota subito nel “Requiem aeternam” iniziale, un’esplosione di voci che tuttavia non sono subordinate all’apporto strumentale, come accadeva in passato (la “prima prattica”). E si delinea qui l’impianto narrativo che imposta e segue Rubino per la sua Messa, un procedere ora alternato ora misto, inframmezzato, si potrebbe dire, di orizzontalità e verticalità.
Mi spiego meglio. E’ la voce la magnifica protagonista ed essa sottolinea la solennità della funzione con un procedere uniforme del tessuto polifonico, quasi dialogato (orizzontale), che improvvisamente slarga e s’innalza (verticale). L’effetto è notevole, per quella scansione anche ritmica che crea immagini di grande bellezza, vedi il “Kyrie” o l’intera sequenza del “Dies Irae” di Tommaso da Celano, con passaggi di forte suggestione (il duetto di “Quantus tremor”, il lamento dell’anima in “Quid sum miser”, la supplica di “Juste judex”, la preghiera di “Lacrimosa”). E l’effetto generale è come di tanti fini ricami racchiusi in un grandioso arazzo, dove si parla della Morte in toni mai totalmente drammatici, anzi, intrisi di una aerea gioiosità.
Ed è proprio questo lo specifico del barocco palermitano, esorcizzare il senso del finito con immagini che lo sublimano e allora come non pensare, direi per riflesso condizionato, alla sua fastosità, alle chiese dense di marmi, immagini, stucchi, dove ogni angolo in cui posi lo sguardo ti riempie gli occhi e l’anima di Bellezza? E qui cito, fra le tante, i Teatini e l’Immacolata Concezione ma anche, per quel gioco di ricami e raffigurazioni piene che caratterizzano la Messa, il grandissimo Serpotta.
Il lavoro di Rubino, essendo un ufficio funebre, è strutturato come una celebrazione religiosa, con inserti liturgici in “cantus planus”, letture di epistole e sequenze, ma vi figurano anche altre situazioni. Strumentali, le sinfonie di Salomone Rossi, alla veneziana, e vocali, un brano di Carissimi, il padre dell’oratorio. Ma anche alcune toccate di Girolamo Frescobaldi, la cui tecnica del “ricercare” ha permesso di sviluppare l’arte della fuga di cui furono maestri i tedeschi (e qui è presente Froberger, allievo di Frescobaldi, che fece praticamente da mediatore).
In conclusione la Messa di Rubino è notevole non solo in quanto “novità”, opera che giaceva impolverata negli archivi del tempo, ma come documento musicale del ‘600 palermitano, con il suo barocco di esuberante bellezza. E il merito è della Cappella Musicale di S.Maria in Campitelli, lo Studio di Musica Antica “Antonio Il Verso” di Palermo e l’Ensemble La Cantoria egregiamente diretti da Vincenzo di Betta che, come già con Benevoli, riesce a far rivivere il clima di un’epoca.
“Messa de Morti à 5 concertata, 1653”, di Bonaventura Rubino, CD Tactus, euro 17,69. www.tactus.it. Per conoscere meglio il gruppo: www.cantoriacampitelli.it
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