Nella storia della musica gli ottoni, cioè gli strumenti a fiato, occupano spesso un ruolo da protagonista, soprattutto nel Medioevo e nella prima Rinascenza. In quest’ultimo periodo in particolare diventano una realtà musicale a sé, vedi la grande scuola veneziana con i Gabrieli, poi, nel tempo, quando prende gradualmente corpo l’orchestra e si distribuiscono gli organici, gli ottoni perdono il loro primato.
Anche se giocano un ruolo importante sono ora pur sempre una parte del tutto, anche se di rilievo, come nei secoli XVII-XVIII (i francesi, Bach, Haendel, Vivaldi) e solo in epoca tardo romantica riacquisteranno spessore (Bruckner). E dunque il concerto del London Brass all’Aula Magna ha davvero un significato particolare, restituendo agli ottoni il loro antico ruolo di protagonista.
Poiché corrono 400 anni dalla morte di William Shakespeare, il concerto si apre con un omaggio, la musica del periodo elisabettiano, il “siglo de oro” inglese, rappresentato da John Dowland, liutista sommo celebrato in tutta Europa. Le sue “ayres” sono di squisita fattura e la trascrizione per ottoni ha saputo renderne il tratto malinconico (“Fortune”) ma anche quello gioioso (“My Lady Hunsdon’s Puffe”) o tipico della musica di corte (“Dames and a Squire”). Una densità sonora ben bilanciata nei piani e nei forti, come risalta in pieno nel brano di Giovanni Gabrieli (“Sonata Pian e Forte”, appunto), musica che spesso accompagnava le funzioni in San Marco e dove ancora rilucono gli splendori della Serenissima.
“Herz und Mund und Tat und Leben”, trascrizione dell’omonima cantata, ripresa nell’ultimo movimento, quel dolcissimo cantilenato così tipicamente bachiano che gli ottoni rendono quasi un ricamo. E, dopo “Greensleeves”, un traditional, sorprende “L’inverno” di Vivaldi nella versione a fiati. Assolutamente notevole, soprattutto il primo movimento, di una irruenza quasi fisica, con le trombe che tracciano il percorso tutto in crescendo dell’Allegro. Uno splendido gioco di rifrazioni che poi si acquieta nel Largo e riprende con vigore nell’Allegro finale (e qui è da sottolineare la trascrizione per ottoni di Roger Harvey, che ha curato anche Dowland e Bach).
Con Mendelssohn e il suo scherzo da “A Midsummer Night’s Dream”, quindi pieno clima shakespeariano, i toni si fanno intriganti e ne scaturisce un clima allegro, ludico, disegnato con sfumature pastello (tale, d’altronde, il tema, sospeso fra fantasia e sogno, il cui spirito Mendelssohn colse in pieno). Un salto e siamo nel ‘900, con Witold Lutoslawski, “Variazioni su un tema di Paganini”, dal taglio più complesso ma comunque brillante. E sul brillante restiamo con Duke Ellington e il suo “Caravan”, un pezzo che evoca il clima del mitico “Cotton Club” di New York (celebrato nell’omonimo film di Francis Ford Coppola) e personaggi come Louis Armstrong e Cab Calloway. Un brano tutto luccichìi, smagliante, che trova un adeguato corrispettivo in “Lush Life”, di Billy Strayhorn, che faceva parte del clan di Ellington. Colore anche in “La carioca”, di Vincent Youmans, mentre “Surprise Variations”, di Paul Hart, è un divertissement sonoro di gran classe. Il finale nel segno dei Gabrieli, con una splendida esecuzione dalle “Cantiones Sacrae”.
Più che meritata la fama mondiale del London Brass, ensemble dove tutti gli elementi convergono all’unisono, equilibrando in maniera perfetta le scansioni del piano e forte. E’ d’uopo nominarli tutti, per la bravura non solo tecnica che il pubblico ha molto apprezzato: Andrew Crowley, Gareth Small, John Barclay, Alistair Mackie (tromba), Richard Bissill (corno), Adrian Miotti (tuba), Lindsay Shilling, Byron Fulcher, Richard Edwards (trombone), David Stewart (trombone basso).
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