Il mottetto come composizione musicale nasce con l’Ars Antiqua francese, nei secoli XII-XIII, ed è una struttura a due, tre ed anche quattro voci tutte in verticale (una sorta d’immagine speculare dell’architettura gotica), dove il “tenor” gioca un ruolo importante. Voci che, nel tempo, troveranno una linea sempre più definita in gradualità espressive, come la grande polifonia franco-fiamminga e la Scuola Romana (ma anche il fiorire del madrigale), fino alle possenti costruzioni bachiane. E il sommo di Eisenach è stato il protagonista della serata di commiato dal pubblico italiano del mitico Hillliard Ensemble nell’Aula Magna della Sapienza. Bach e Arvo Part, compositore estone vivente, alternati, in uno stimolante dialogo oltre il tempo (due secoli, 1700 e 1900) il cui comun denominatore è una profonda spiritualità.
Nella sua funzione di “Kantor” della chiesa di San Tommaso a Lipsia, Bach era tenuto a comporre cantate per le feste di precetto, cosa che fece con una regolarità impressionante. Trecento cantate, mentre i mottetti sono una manciata, a significare che i primi erano un lavoro, i secondi qualcosa di più e lo si vede subito con “Der Geist hilft unser Schwachheit auf”, un denso riverberìo di voci che si saldano l’un l’altra con quegli effetti chiaroscurali così tipici del musicista tedesco. E’ la tecnica del contrappunto che Bach approfondì e sviluppò in modo superbo, toccando i vertici della musica barocca (pensiamo ai grandi Oratori). Così gli altri mottetti in programma, come “Jesu meine Freude”che dopo un inizio quasi monodico si apre al contrasto vocale dove la complessità del tessuto corale dà come l’idea del canto degli angeli in un quadro fiammingo.
Un canto di base, senza accompagnamento musicale, perché l’esecuzione degli Hilliard è “a cappella”, cioè solo voci, come spesso era all’inizio, durante le funzioni nella Thomas Kirche di Lipsia (ma i mottetti di Bach si prestano ad entrambe le interpretazioni, sia semplice che composta). In “Komm, Jesu, komm” si avverte tutta la profonda religiosità del Maestro, una fede salda e sincera che si esprime nell’orditura delle voci, con punte che raggiungono il sublime come nel verso finale di “Singet dem Herrn ein neues Lied”, che segna davvero il recupero della voce nella sua originaria purezza. Ed è quanto propongono da sempre gli Hilliard, qui con Bach impegnati a ridisegnare non solo la sua musica ma anche il clima di un epoca, il gusto del Barocco vissuto però all’interno, come mezzo di ascesi, il dialogo dell’anima con il divino.
E questa visione tutta intima e raccolta vale anche per i brani di Arvo Part, a cominciare da “Summa”, che, pur risentendo delle esperienze d’avanguardia, rivela una struttura che guarda con attenzione al passato. Ciò appare più evidente in “And One of the Pharisees”, il cui sottile senso di arcano impregnato di un forte afflato religioso rimanda ai misteri medievali, il racconto allegorico sospeso fra terra e cielo (penso in particolare al “Ludus Danielis”). Ma, ovviamente, v’è anche una matrice culturale dietro, avvertibile nei “Due Salmi Slavi”, quella spiritualità ortodossa che in “Most Holy Mother of God”, composto espressamente per gli Hilliard, si affina sino alla stilizzazione, con effetti molto suggestivi. E l’impressione finale è che ci troviamo di fronte ad un musicista contemporaneo che, nel campo della musica sacra, ha ancora molto da dire (vedi anche il “Te Deum”).
Ovviamente un trionfo per lo Hilliard Ensemble, che sono David James, Rogers Covey-Crump, Steven Harold, Gordon Jones. A loro si sono aggiunti Monika Mauch, Claudia Reinhard, David Gould, Robert Macdonald, nell’alternanza dei mottetti da tre ad otto voci. Un commiato che più intenso, in termini di bellezza, non poteva essere.
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