“Creation of a World Center of Communication”. Lo leggi sulla mappa che configura una città, riprodotta poi nel pannello alla parete, ampi spazi, una geometria di pieni e vuoti. E’ una città ideale, un’utopia che impregnò di sé l’opera dello scultore norvegese Hendrik Christian Andersen, la cui splendida casa-museo, situata nei pressi di piazzale Flaminio ed a pochi metri dal Lungotevere, è un gioiellino tardo liberty con inflessioni neo rinascimentali. La progettò lui stesso, negli anni ’20, Villa Helene, e qui, reduce dagli Stati Uniti, visse e lavorò per quarant’anni, fino alla morte, nel 1940. La sorella Lucia donò il complesso allo Stato italiano ed ora questo magnifico patrimonio costituito da centinaia di statue, dipinti, mobilio d’epoca, arricchisce la città e merita assolutamente una visita.
Tre fratelli, Hendrick, scultore, Andreas, pittore, Arthur, musicista, dalla Norvegia ad oltreoceano, dove vengono naturalizzati americani, poi l’Europa e infine l’Italia e Roma, dove Hendrick decide di vivere e sviluppare il suo progetto utopico. In breve tempo la casa-studio diventa un cenacolo d’arte, recependo i fermenti culturali che animavano l’Urbe inizi ‘900, nonché quelli europei. Le correnti pittoriche e delle arti plastiche in generale, gli umori politici, il femminismo, ogni cosa trovò eco in Villa Helene, che per Hendrik non era solo casa intesa come centro degli affetti (Helene, la madre amatissima, il fratello Andreas, che morirà a soli 33 anni, Olivia, la compagna e cognata di Hendrik nonché sua biografa, gli amici) ma anche il pilastro principale della sua particolare cosmogonia cui non erano estranee le letture rosacrociane e teosofiche (un volume della Blavatski figura nella libreria personale).
Il femminismo, dicevo. E’ un tema caro ai due fratelli, soprattutto ad Hendrick che nella donna vedeva l’ispiratrice ed il centro armonico della sua città ideale, la “Mater” il cui afflato d’amore attraversa il corso del tempo e lui lo sublima qui, nel sogno del World Center. Un processo parafrasato dalla mostra in corso, “Femminile e femminino”, cinque capitoli per penetrare il fascinoso enigma muliebre, dove, nella lettura che ne dà l’arte, da sempre s’intrecciano mito e immagine reale. L’inizio, “Tra sacro e profano: aspetti della femminilità e del femminino”, con un magnifico olio di Andreas, “Adamo ed Eva nell’Eden”, il richiamo ai primordi, aspro e sensuale, mentre con “Maddalena”, di Hendrik, si delinea il tipo opposto, una femminilità rarefatta, “verticale”, che trova in “Psiche” il suo controcanto, l’elevazione dove corpo ed anima si fondono in un’unica armonia e, infine, “Sirenetta”, come ambiguità, creatura che unisce mondi contrapposti.
“Lo studio del corpo femminile”, con disegni dei due fratelli, molti dei quali sembrano quasi istantanee, in tutto simili alle raffigurazioni di Eadweard Muybridge, pioniere della fotografia (il periodo è lo stesso, fine ‘800). E, nel tratto di Hendrik, appare evidente una tensione michelangiolesca, che poi proromperà nella scultura, come si vedrà nel quinto capitolo. Con “Le donne di casa Andersen: gli affetti”, si entra nella dimensione poetica di Hendrik, la “domus”, centro di vita, con la madre Helene, presente in un bel ritratto, e le altre donne della sua vita, la cognata Olivia e la sorella adottiva Lucia. E qui il discorso si amplia, “L’immagine e il ruolo femminile tra Ottocento e Novecento”, ovvero la donna che vive un momento storico a lei favorevole e si afferma nel mondo delle arti (la strada l’aveva aperta George Sand). Ed ecco il ritratto di Isabelle Stewart Gardner, ricca collezionista e mecenate, di Andreas, il tondo con Francesca Bertini, grande diva del muto, Ethel Cochran, ancora di Andreas ed altre tele il cui stile ha sapori impressionisti.
Prima di scendere al piano terra, la quinta sezione, “La Donna nella città perfetta di Andersen: vedere il feminino”, è bene soffermarsi sui particolari, l’arredamento, gli affreschi del soffitto, gli stucchi e poi, ancora, gli strumenti da lavoro e un bel busto in terracotta di Hendrik, che rivela il suo amore per il ‘400 ed il primo rinascimento italiano (Donatello, Laurana, Verrocchio). Amore che ritroviamo giù, nelle composizioni sacre (un’ancona con la crocifissione) ma, nel panorama complessivo, è Michelangelo il referente più prossimo. Nei due vasti saloni è tutto un fiorire di statue di Hendrik, singole e a gruppi, grandiosi viluppi marmorei che dovevano costellare la città ideale, con la Fontana della Vita quale “umbilicus urbis”, il punto dove converge e di dove s’irradia l’energia (evidente la lezione teosofica steineriana).
Indubbiamente v’è una propensione al gigantismo che un po’ altera la visione d’insieme, come aveva notato lo scrittore Henry James, suo grande amico, ma ciò non sminuisce la suggestione che provoca questa folla di statue. Hendrik lavorava andando oltre la pura forma, sconfinando in un territorio dove l’arte diventava filosofia pura. Un mistico? Non a caso il suo incontro con Tagore, il grande poeta indiano che lo visitò a Roma (una foto fissa il momento), fu particolarmente felice, entrambi sulla stessa lunghezza d’onda. La Poesia come voglia di futuro.
“Femminile e femminino”, Museo Hendrik C. Andersen, via Pasquale Stanislao Mancini 20, dal martedì a domenica, h.9,30-19,30 solo su prenotazione con visita guidata. Per informazioni 06.3219089 e pm-laz.museoandersen@beniculturali.it
Scritto da: Antonio Mazzain data: 5 giugno 2016.il20 giugno 2016.
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