Non è affatto raro trovare nelle tombe etrusche il “khepra”, lo scarabeo sacro agli egizi, simbolo della rinascita (Ra, il dio-sole che sorge ogni mattina). Soprattutto in quelle più antiche, VII-VI a-C., che testimoniano di contatti con la terra dei faraoni, mentre per le più recenti si tratta di imitazioni locali. Di certo per l’aristocrazia etrusca possedere qualcosa d’origine egiziana era un segno di distinzione (la “moda”, chiamiamola così, fu favorita dai Fenici, con le loro rotte commerciali nel Mediterraneo). Ma c’è qualcosa che va ben oltre il puro oggetto ornamentale ed è una sorta di affinità fra Egizi ed Etruschi soprattutto per quanto riguarda la sfera dell’oltre vita, come risulta dalla mostra in corso alla Centrale Montemartini, “Egizi Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo Dorato”.
A Vulci, in quel magnifico parco archeologico naturalistico della Maremma laziale, durante una delle periodiche campagne di scavo, sono stati rinvenuti oggetti preziosi per stabilire un collegamento fra le due culture. E’ appunto la Tomba dello Scarabeo Dorato dove sull’oggetto sacro è riportato il nome del faraone Bocchoris, che già figurava su una situla collocata nella necropoli di Tarquinia. E, sempre a Vulci, la scoperta di un‘altra tomba nel cui corredo funebre erano i pendagli con la dea Hathor e il dio Horus, anche questa databile intorno al VII secolo (Tomba degli Ori, materiale in mostra, come la precedente). E’ la cosiddetta fase Orientalizzante e tuttavia anche in epoca più recente, la fase Ellenistica (IV secolo), figurano manufatti di provenienza orientale (una magnifica coppa invetriata di produzione alessandrina qui esposta), segno che la predilezione etrusca per gli “aegyptiaca” era immutata nel corso dei secoli.
Soprattutto amuleti, pendenti, statuette, ricercati per la loro valenza apotropaica, oggetti peraltro di fine fattura, ad esempio un pregevole dio Bes in avorio dal Tumulo di San Paolo a Cerveteri, VII secolo a.C. (proteggeva dalle forze del male: noto anche presso i romani). Ma fra le due culture vi sono analogie e richiami, come risulta dalla mostra dove compaiono notevoli reperti delle collezioni Castellani e Berman. In particolare quest’ultimo, pittore e scenografo che si stabilì in Italia (collaborò molto con la Scala di Milano), nella cui vasta raccolta (3000 oggetti) figurano preziose testimonianze dell’Antico Egitto. In particolare maschere funerarie ed è interessante vederle qui confrontate a splendide antefisse etrusche.
Si procede per “capitoli” in questo viaggio parallelo. Con “Il metallo degli dei” entriamo subito in una dimensione superiore perché l’oro, per entrambe le culture era simbolo sacro, l’incorruttibile, l’immortalità (la carne degli dei per gli Egizi: Ra, dio del sole, e Hathor, sua figlia, emanazione della luce). Fibule, anelli, lamine, amuleti spesso con richiami al pantheon egizio (vedi quello raffigurante Ptah, divinità domestica) ma gli Etruschi non sono da meno in quanto a raffinatezza, come dimostra il corredo della già citata Tomba degli Ori ( una bella fibula a disco), dove furono trovati alcuni “aegyptiaca” (in proposito ricordiamo anche tutto lo sfarzo della Tomba Regolini-Galassi). E il percorso prosegue con “La regalità orientale e la sua percezione nel mondo etrusco”, introdotta da un calco in gesso dipinto del busto di Nefertiti che si trova nel Neues Museum di Berlino.
Dai frammenti lapidei con il cartiglio di Akhenaton, suo sposo, faraone della XVIII dinastia che al politeismo sostituì il culto di Aton, il disco solare dispensatore di vita (ma fu una rivoluzione effimera) a un terminale in bronzo di bastone da comando trovato in una tomba di Vulci, simile allo scettro usato dalle divinità femminili. E il senso di maestà si ritrova anche in due statue funerarie vulcenti, una coppia di leoni ed una sfinge in nenfro, che rimandano ai monumenti egizi e analogie vi sono anche per quanto riguarda il banchetto funebre. E molto interessante è la sezione “il sogno dell’immortalità”, il concetto di un “oltre” che per gli egiziani si rivela molto complesso, dal giudizio degli dei (la pesatura dell’anima su una bilancia: se positiva veniva accolta da Osiride, altrimenti era divorata dal mostro Amenet) al viaggio nel mondo infero, come risulta dal Libro dei Morti.
Oltre ad amuleti portafortuna (il “Djed”, collegato al culto di Osiride) sono esposte tavole votive, sarcofagi, mummie (vedi la bambina Giupra), statuette “ushabti” (servitore del defunto nell’aldilà), amuleti scaramantici (come la faience che riproduce Anubis, il dio dei morti). E i canopi, pratica funebre comune, ma gli Egizi li usavano quali contenitori di visceri o parti organiche mentre gli Etruschi li colmavano con le ceneri del defunto (dagli ossuari villanoviani ai canopi antropomorfi chiusini). Analogie anche con i carri e, su base di frammenti sparsi, è stato ricostruito un “cursus” di tipo etrusco-italico databile al VII secolo. Pregevole ed anche rara è poi la coppia di mani pertinenti ad una statua polimaterica (“sphyrelaton”), lamine in lega di argento, oro e rame da una tomba del VII secolo del territorio vulcente. E qui “Dei e dee dall’Antico Egitto all’Etruria” introduce alla particolare cosmogonia delle due culture.
Senz’altro più complessa quella egizia, con un pantheon molto variegato ed una potente casta sacerdotale al cui culmine era il faraone, incarnazione di Horus, figlio di Ra. Una teocrazia come in fondo era quella etrusca, con i lucumoni, i re-sacerdoti, ed una triade divina quale tratto comune non solo alla cultura mediterranea (Iside-Osiriride-Horus per l’Egitto, Uni-Tin-Menerva per la nazione etrusca, da cui forse deriva la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva, i greci con Zeus-Hera-Athena, la Trimurti Indiana e altro ancora, fino alla Trinità cristiana). Busti e statuine di divinità (Sekhmet con la testa di leonessa, il deforme Bes, Marte all’assalto, ex voto etrusco del tipo curotrofico) che introducono all’ultima parte della mostra.
“L’oro di Nefertum: profumi d’Oriente”, la cosmesi nel paese dei faraoni, evocata da vasi e coppe in calcite ed alabastro alla cui eleganza fa da controcanto la raffinata fattura degli aryballoi (porta profumi) etrusco-corinzi. Infine con “I tempi del confronto”, vasi, maschere, monete, coppe, una rara fiasca da pellegrino in bucchero nero, per la maggior parte materiale sequestrato dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, la cui benemerita attività ha permesso il recupero di beni di inestimabile valore soprattutto sul piano storico. E, quale deliziosa appendice, i tessuti copti della Collezione Berman, lacerti di grande bellezza in lino e lana dal IV al VI secolo d.C., con figure di uomini e animali (notevole quello dei danzatori).
In conclusione una mostra molto ricca (240 oggetti esposti) assolutamente da non perdere, che celebra degnamente il ventennale dell’apertura al pubblico della Centrale Montemartini. Al suo interno è stato ricavato uno spazio nuovo da dedicare alle esposizioni temporanee, spazio che, come nel caso della presente mostra, accrescerà la suggestione del luogo, con le reliquie del passato sparse fra i macchinari inizio ‘900. Archeologia classica e Archeologia industriale a confronto in un dialogo per nulla complesso, in quanto il Presente scaturisce dal Passato.
Egizi Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato”, alla centrale Montematini (Via Ostiense 106) fino al 30 giugno. Da martedì a domenica h.9-19, biglietto euro 11 intero comprensivo di ingresso al museo e alla mostra, euro 10 ridotto per i non residenti (10 e 9 per i residenti). Per informazioni 060608, www.centralemontemartini.org e www.museiincomune.it
Scritto da: Antonio Mazzain data: 29 gennaio 2018.il4 febbraio 2018.
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