Dove predicava Filippo
Dove predicava Filippo
(la Grande Bellezza)
di Antonio Mazza
Ai tempi della Roma repubblicana quest’area sul lato ovest di Campo Marzio, verso il Tevere, era nota come Palus Caprae, dove si celebravano riti sacri. Venne in parte bonificata da Marco Vipsanio Agrippa poi, con la caduta dell’impero, tornò nella primitiva condizione, nota nel medioevo come “palus caprea”. E così era, una zona depressa e acquitrinosa che formava una piccola valle, Vallicella, e, in censuale del 1380, si fa menzione della “parochia s.Mariae in Vallicella”. Questa fu donata nel 1575 da Gregorio XIII Boncompagni a Filippo Neri, che con la sua Congregazione dell’Oratorio, riconosciuta dal papa, svolgeva opera di apostolato in un quartiere un po’ turbolento. “Pippo buono”, come era noto il futuro santo romano, si occupava non solo di carità e di gioventù difficile ma anche di cultura che, abbattuta la chiesa ormai fatiscente e costruitane una fra le più belle della Roma barocca, trovò qui e poi nel vicino oratorio eretto dal Borromini nella prima metà del ‘600, un centro nevralgico. La devozione animava la “Visita filippina delle Sette Chiese”, il “gaudium” che ritroviamo, esaltato, nella “Lauda filippina”, espressione della “pietas” popolare e primo seme dell’oratorio sacro che qui avrà la sua gestazione (“Rappresentazione di anima et di corpo”, di Emilio de’ Cavalieri, 1600).
Nota anche come Chiesa Nuova, dopo la ricostruzione, Santa Maria in Vallicella, come la maggior parte dei luoghi di culto romani, è un posto dove religiosità e arte s’intrecciano. E da questa bellezza sparsa ovunque ne scaturisce per il credente come un senso di maggiore consapevolezza e per il non credente una serenità contemplativa che fa bene all’anima. E’ questa la peculiarità delle chiese romane (ma direi di quasi tutta l’Italia), che con il loro patrimonio d’arte trasmettono un esclusivo quanto inedito messaggio di pace e di purezza. E così per Chiesa Nuova, dove riposa “Pippo buono” (dietro l’altare le camere dove visse), conosciuta soprattutto per i tre grandi dipinti su lavagna di Rubens situati sull’altar maggiore, che s’impongono per la loro solennità. D’impianto a croce latina a tre navate con cappelle laterali e volta a botte, Santa Maria in Vallicella presenta una decorazione fastosa, con affreschi e quadri che la impreziosiscono ulteriormente. Dieci le cappelle più quattro del transetto, e, cito fra le più importanti per le opere ivi racchiuse, quella della Visitazione con la luminosa pala d’altare di Filippo Barocci, particolarmente cara a San Filippo Neri. E il Crocifisso, con Scipione Pulzone, influenzato dalla pittura veneta, la Pietà, dove un tempo era la “deposizione di Cristo nel sepolcro”, di Caravaggio, trafugato dai francesi e poi restituito (ora è ai Musei Vaticani). Ancora il Barocci nel transetto, la cappella della Presentazione della Vergine, e un bel Maratta, in una sacra composizione, nella cappella di San Carlo Borromeo.
Ma è il soffitto, con la splendida “Visione di San Filippo”, a catturare l’attenzione. La Madonna regge il tetto pericolante della vecchia chiesa e, in basso, San Filippo Neri osserva stupito, mentre intorno da alcuni segni si avverte il sorgere del nuovo cantiere. Una scena di movimento e di grande effetto scenico, firmata da Pietro da Cortona, al quale si deve un altro capolavoro, su nella cupola, il ciclo degli affreschi dove si celebra la Gloria della Trinità, in un tripudio di santi e di angeli, con la presenza dei Profeti e, nel lanternino, la Colomba divina. Un’opera colossale, 300 mq. al cui restauro si è dedicato per oltre un anno un pool di tecnici coordinato dall’architetto Alessandra Fassio nell’àmbito di un intervento realizzato con fondi ordinari del FEC (Fondo Edifici di Culto) e curato dalla Soprintendenza Speciale di Roma. Alla cerimonia di chiusura dei lavori hanno presenziato il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, il Soprintendente Speciale Daniela Porro, il Preposito della Congregazione Oratoriana Rocco Camillò, il Cardinale Giovanni Battista Re e il Capo del Dipartimento per le Libertà civili e per l’Immigrazione Prefetto Laura Lega (Dipartimento del Ministero dell’Interno dal quale dipende il FEC). Tutti hanno messo in risalto come i restauri abbiano permesso di preservare qualcosa che appartiene al nostro “patrimonio identitario”, la cui forza e bellezza è lassù, a 42 metri di altezza, sul ponteggio montato nel transetto.
Saliamo noi della stampa sull’elevatore e già il colpo d’occhio all’interno della chiesa è notevole, con la visuale che s’amplia man mano che ascendiamo. Eccoci e quanto ci attende supera ogni aspettativa perché ci troviamo a tu per tu con quelle figure che, prima del restauro, vedevamo da giù, piccole anche se pur fascinose. Ma ora parlare di fascino significa poco o nulla, l’impatto con questa folla di personaggi immersi in un morbido delirio cromatico, una folla che ti avvolge con i suoi 300 mq. e quasi sembra abbracciarti, è qualcosa che esalta e al contempo stordisce. Sì, è Bellezza allo stato puro, una sensazione che ti (mi, è quanto sto provando ora) lascia sgomento ma con una voglia di dire, parlare, che ti sale in gola. E’ un’esclamazione di gioia, di felicità, perché ti riconosci in quella bellezza che Pietro da Cortona ha raffigurato in immagini trecentocinquanta anni fa, una bellezza che comunque scaturisce dall’interno dell’essere e che noi, nel tempo, abbiamo perso. Ma ora è lì, puoi toccarla, ti (mi) penetra ed è un brivido ineffabile, un pò come quello che sembra pervadere i puttini sparsi fra le nuvole, a celebrare i Santi Misteri. E Dio Padre, Cristo, la Madonna e i Profeti e lo Spirito Santo, è tutto un inno di luce e colori, una magia sparsa a 360° che toglie il respiro. E allora comprendo, sulla mia pelle, cosa era (e adesso è) la “sindrome di Stendhal”: quando la Bellezza si rivolge proprio a te, in prima persona.
Tutto questo ha significato un anno e mezzo di lavoro a 42 metri di altezza, spesso in condizioni non ottimali, come l’estate scorsa, che ha visto il pool operare con temperature ben oltre i 40°. Ma non è stato certo facile, nella cupola si presentavano circa 600 “bottaccioli”, ovvero residui di calce non spenta che, negli intonaci dove viene appunto usata la calce, nel tempo, a causa di infiltrazioni meteoriche, si rigonfia provocando il distacco dell’intonaco stesso (l’ultimo restauro, ovviamente discutibile, risale al 1893). E che ci siano ancora problemi di umidità in zona è dovuto al fatto che, eretti i muraglioni per contenere il Tevere, quei rivoli d’acqua che scorrono in Campo Marzio non trovando più sfogo creano vaste zone umide (sotto la non lontana San Lorenzo in Damaso v’è un laghetto con al centro un sepolcro romano: vi confluisce l’Euripo, un tempo collegato alla “natatio” delle Terme di Agrippa, presso il Pantheon. Un resto è nella via dell’Arco della Ciambella). Finisce così la prima fase dei restauri, che ha contemplato anche il recupero di cappelle, stucchi e consolidamento strutturale, e la seconda proseguirà con interventi sugli affreschi dell’abside, sempre per mano di Pietro da Cortona. Il tutto, come già per la cupola, verrà eseguito con materiali ecocompatibili e comunque con tecniche d’avanguardia. Lo stesso pool di specialisti che ha restituito la cupola al suo originario splendore.
La Bellezza è in buone mani.
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