“Bello e di gentile aspetto”. Non si può non pensare a Dante osservando il suo ritratto giovanile, con quel volto dai tratti delicati e lo sguardo malinconico. Lui, il grande Raffaello, genio dalla parabola breve ma intensa, che nella Roma della Rinascenza parlò il sublime linguaggio della Bellezza. Il suo ritratto però non è all’inizio della mostra bensì al termine, mentre in apertura figura la riproduzione in grandezza naturale della tomba che si trova a Roma, nel Pantheon. Quindi un percorso atipico, da Omega ad Alfa, anziché il contrario come da norma, e tuttavia fortemente simbolico perché il ritratto a fine mostra è come una consacrazione della freschezza e purezza del genio: la sua eterna gioventù.
“Nacque adunque Raffaello in Urbino l’anno 1483, in venerdì santo a ore tre di notte”, così riporta il Vasari. E’ figlio d’arte e frequenta sin da piccolo la bottega del padre Giovanni, pittore di fama, nonché le pregiate collezioni del Palazzo Ducale che gli accendono la fantasia. Impara bene il mestiere, collaborando prima col padre e poi andando a bottega dal Perugino e infine dal Pinturicchio. Assorbe in pieno il particolare “clima” della pittura umbra, la sobrietà ed insieme dolcezza di modi che, unita ad una vivace vena creativa, si riassumono in quel capolavoro giovanile che è lo “Sposalizio della Vergine”, all’Accademia di Brera (qui, come nel “Cristo benedicente” in mostra, si avverte il distacco dai modi, pur evidenti, del Perugino). Si reca poi a Firenze, approfondendo la conoscenza dei maestri del ‘400 (Donatello, Masaccio) e quella dei grandi come Leonardo e Michelangelo. Ormai affermato riceve committenze dall’Umbria e dalle Marche finché, nel 1508, giunge a Roma e qui inizia il periodo più fertile della sua vita d’artista.
L’Urbe dei papi è un cantiere, Bramante sta costruendo San Pietro dopo aver demolito la vecchia basilica costantiniana e la città si presenta con il suo incredibile tessuto urbano fatto di nuove costruzioni alternate ad antiche rovine. E’ questo che colpisce il giovane Raffaello il quale, insieme a Baldassarre Castiglione, scrive a Leone X, che lo ha nominato “Prefetto dei marmi e delle lapidi”, una lunga epistola perorando affinché non siano distrutte le testimonianze di un glorioso passato. “Quanta calce si è fatta di statue et altri monumenti antiqui” si legge nelle lettere originali autografe qui esposte, con riferimento alle “calcare” che, situate in vari punti della città, fondevano i marmi per riutilizzarli a scopo edilizio. Ed emoziona, osservando quella grafia minuta, tracciata cinque secoli fa, pensare che l’umanista Raffaello è stato il primo a suggerire un codice per il rispetto (e soprattutto l’amore) per l’Antico.
In proposito sono esposti reperti d’epoca romana (notevole un “Menologium rusticum”, calendario con i segni zodiacali) e testi relativi alla materia trattata, come il “Codice epigrafico” di Frà Giocondo. Nonché schizzi e disegni dell’urbinate (notare l’agile cavallo del gruppo dei Dioscuri) che ambisce a realizzare una sorta di carta universale della città di Roma, impegnandosi poi come architetto per renderla ancora più bella (vedi la Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo o i progetti per Sant’Eligio degli orefici e Villa Madama). A Roma Raffaello dà il meglio di sé nelle Stanze Vaticane (con Giulio II e poi Leone X) e qui figurano alcuni cartoni preparatori, in particolare “Mosè inginocchiato davanti al roveto ardente”, nella Stanza di Eliodoro, dove il tratto deciso e tuttavia non forzato conferisce un’eccezionale forza espressiva al personaggio biblico.
Vigore, certo, ma anche un’eleganza e delicatezza di toni che appaiono evidenti nelle opere su tela e su tavola, a cominciare dal periodo fiorentino, la squisita “Madonna con il Bambino”, detta anche “Madonna del Granduca” perché acquistata nel ‘700 da Ferdinando III di Lorena. E al tema mariano dedica gran parte della sua attività pittorica, realizzando un perfetto equilibrio fra divino e umano, l’uno compenetrato nell’altro in una soave armonia di toni. Così la “Madonna Tempi”, che nella struttura ricorda la “Madonna Pazzi” di Donatello (è ancora il periodo fiorentino) o la “Madonna dell’Impannata”, su committenza del banchiere e mecenate Bindo Altoviti che a Roma aveva un sontuoso palazzo poi demolito. E’ una composizione a più personaggi, al cui centro è il piccolo Gesù che la Vergine porge a Sant’Elisabetta inginocchiata. Dietro di lei Santa Caterina d’Alessandria e, sul lato destro, seduto, San Giovannino che indica la scena il cui clima è quello sospeso della “Sacra Conversazione”. Ma l’aspetto puramente devozionale stempera in una più generale visione di serenità quasi domestica, di interno con figure, quella serenità che impregna tutta l’opera di Raffaello.
Alla radice vi è la talora struggente dolcezza della pittura umbra che poi nel tempo arricchisce di nuovi apporti, pur restandone essa il tratto peculiare. Ed emblematica in questo senso è la “Madonna con il Bambino e San Giovannino”, detta anche “Madonna d’Alba”, piena di riferimenti simbolici, dove quella dolcezza d’insieme sfuma in toni plastici che rimandano a Michelangelo mentre il paesaggio di sfondo ha sapori leonardeschi. Ciò nulla toglie al vigore descrittivo di singoli personaggi e qui introspezione psicologica e idealizzazione vanno spesso a braccetto, per così dire. Nel primo caso il “Ritratto di Baldassarre Castiglione”, l’autore del famoso “Il libro del cortegiano”, raffigurato come uomo sicuro di sé, abile e diplomatico, come deve essere appunto un cortigiano. O il “Ritratto di Giulio II”, il papa della Rovere come appare nel suo crepuscolo, un vecchio stanco e amareggiato per la sconfitta subita dai francesi a Bologna. Nel secondo caso la figura femminile idealizzata, Raffaello avendo recepito il pensiero platonico attraverso i testi di Marsilio Ficino e la visione petrarchesca con Pietro Bembo, segretario di Leone X, che conobbe personalmente. E i risultati sono due capolavori: “Ritratto di donna detta “La Velata” e la celebre “Fornarina” (noto anche come “Ritratto di donna nei panni di Venere”).
Al primo caso appartiene anche il magnifico “Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi”, la celebrazione del potere con una grande cura al particolare (la campanella cesellata, il Libro d’Ore sfogliato dal papa). E l’attenzione al dettaglio, unita ad una rappresentazione diversa del tema sacro, dove l’intento agiografico è appena accennato, impreziosisce i suoi ultimi lavori. Come “San Giovanni Battista”, “Santa Cecilia con i santi Paolo, Giovanni Evangelista, Agostino e Maria Maddalena” (“Estasi di Santa Cecilia”) e gli stupendi arazzi visti di recente in Vaticano, un paio dei quali ornano i saloni della mostra. Ma il tempo di Raffaello purtroppo è breve, si ammala, “tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da’ medici che fosse riscaldato”, come riporta il Vasari. Non è un semplice malessere, così “finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il venerdì santo d’anni XXXVII, l’anima del quale è da credere che come di sue virtù ha abbellito il mondo, così abbia di sé medesimo adorno il cielo”.
prorogata fino al 30 agosto
“Raffaello” alle Scuderie del Quirinale fino al 2 giugno. Da domenica a giovedì h.10-20, venerdì e sabato h.10-22,30. Biglietti euro 15 intero e 13 ridotto, speciale pausa pranzo euro e over 65 euro 10. Per informazioni www.scuderiequirinale.it
Scritto da: Antonio Mazzain data: 17 marzo 2020.il24 gennaio 2021.
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