Immensi orologi liquefatti, elefanti dalle zampe esili tipo zanzara, spaesamento delle figure e degli oggetti, senso di un enigma che si cela fra le pieghe dell’opera, pittura o scultura che sia. Questa, comunemente, è l’immagine o, meglio, la sintesi di immagini, che evoca il nome di Salvador Dalì, ma con un rischio intrinseco. Certamente Dalì è questo, ovvero, è “anche” questo, perché altrimenti lo si confina in un’area mista, fra surrealismo e pulsioni onirico-visionarie. E’ la prima fase della sua lunga carriera artistica, quando frequentava Dalì, Miro, Eluard, Breton che lo espulse dal movimento surrealista perché non ne rispettava i canoni. Era eccessivo, incatalogabile con il suo metodo paranoico-critico che spiazzava critica e pubblico (i fantasmi dell’inconscio però governati dalla coscienza critica). Ma il nucleo di base, l’asse portante del suo percorso narrativo, era ben solido, impregnato della densa linfa del Rinascimento, che Dalì conobbe ed amò nei suoi viaggi in Italia. Piero della Francesca, Mantegna, ma soprattutto Raffaello e Michelangelo, la tradizione degli antichi maestri quale modus per rinnovare il messaggio artistico in generale, come scrive in “La decadenza dell’arte moderna”: “L’unica possibilità concreta per creare un’opera d’arte originale sta nell’aggiungere qualcosa alla tradizione”. Il suo è un continuo raffrontarsi all’arte classica (greca e romana) e rinascimentale ed è anche il senso della mostra al Palazzo Blu di Pisa, “Dalì. Il sogno del Classico”.
E’un Dalì pressoché inedito quello presente nelle centocinquanta opere esposte, che coprono un arco di tempo di quarant’anni, cioè la parte più stimolante e matura della sua immensa produzione artistica. Gala, la compagna di vita nonché musa ispiratrice, compare ad inizio mostra, inserita come un’apparizione angelica nel luogo prediletto dal pittore dove, come annota nella sua autobiografia, conduce “vita ascetica, di isolamento”. E qui, in “Sant’Elena a Portlligat” e “L’angelo di Portlligat”, Dalì esprime quella religiosità che, dopo l’incontro con Pio XII e la pubblicazione del “Manifesto mistico”, cerca di coniugare nel messaggio pittorico: moderno e tradizione, dove questa integra e ravviva quella. E “La Trinità”, realizzata in occasione del Concilio Ecumenico promosso da Giovanni XXIII, con le sue figure senza volto sospese nella luce, testimonia una religiosità che è soprattutto ricerca. E questa si estrinseca magnificamente nelle cento illustrazioni della “Divina Commedia”, realizzate con tecniche diverse (acquerello, gouache, sanguigna) e poi trasposte in fotoincisione. Inizialmente furono commissionate dal Poligrafico dello Stato, contratto poi rescisso perché su alcuni giornali si criticava l’aver affidato Dante ad uno straniero (ma l’Italia degli anni ’50 era un paese culturalmente piuttosto miope). Quindi poterle finalmente vedere da vicino è quasi un privilegio, per la bellezza delle opere non meno che per la loro forza inventiva. Sarebbe da citarle tutte, una più sorprendente dell’altra, ma, per questioni di spazio, occorre selezionare.
Dante e una landa deserta. Inizia così il viaggio, prima tappa l’Inferno, dove la vena visionaria di Dalì esplode in tutta la sua colorita virulenza. “Minosse”, “Gli avari e i prodighi”, “Sul ciglio della settima bolgia”, ma soprattutto “La selva dei suicidi”, “I prevaricatori”, “I falsari”, “Un diavolo loico”. Viluppi di corpi, figure stravolte e dilaniate, forme un tempo umane e ora immagini grottesche avvolte nei vapori infernali, un sabba di dolore e rabbia che esprime tutta l’angoscia della carne straziata. Incubi e succubi, i mostri dell’Es, Dalì come un Bosch del XX secolo, ma, in forza della sua vena religiosa, già nel Purgatorio il tratto diventa più disteso, la figura singola o la configurazione corale si fanno meno cupe, senza che questo però indebolisca la componente visionaria. Anzi, ne viene esaltata, si avverte un che di nuovo, a cominciare da “L’angelo caduto” (il motivo caro a Dalì dei cassetti che fuoriescono dal corpo: ciò che si cela nei meandri della coscienza. Non dimentichiamo l’interesse per Freud, che incontrò nel 1938, illustrandogli il suo metodo paranoico-critico).
E’ l’affiorare della speranza pur fra le pieghe del vizio e Dante, guidato da Virgilio (“Il volto di Virgilio”, con un che di botticelliano), procede fra le ombre che si trascinano i loro peccati (“ La seconda cornice”, “Uno spirito interpella Dante”, “L’invidia”, “Avarizia e prodigalità”, “La settima cornice, la lussuria”). Poi il commiato (“Le ultime parole di Virgilio”) e l’accesso alla sfera superiore (“La foresta dell’Eden”). E, nel percorrere il Paradiso in compagnia di Beatrice, le figure si fanno più diafane, il segno di Dalì stempera in toni morbidi, quasi vellutati. Cito “Il Paradiso terrestre”, “Dante purificato”, “Il primo cielo”, “L’accresciuta bellezza di Beatrice”, un crescendo che è un tripudio di luce. “Lo splendore dei beati”, “Apparizione di Cristo”, “La scala mistica” (come non pensare al sogno di Giacobbe?), “Il trionfo di Cristo e della Vergine”, “Nell’Empireo”, fino al culmine, “La preghiera di San Bernardo”. E’ il conseguimento della Grazia, la visione di Dio (un Dalì mistico, vena che è nel suo dna ispanico: Teresa de Avila e San Juan de la Cruz).
Ma se le illustrazioni per la Divina Commedia sono di sorprendente bellezza, quelle per la Vita di Benvenuto Cellini non risultano meno fascinose. Pur diverse, come tempi (realizzate nel 1945 mentre le altre sono del 1950) e nel linguaggio (acquerello e inchiostro su carta) mostrano un Dalì ispirato, che ha saputo cogliere in pieno la componente “picara” dell’avventurosa esistenza dell’autore del “Perseo” (e qui di nuovo emerge il suo dna: Cervantes, Quevedo, nonché quel classico che è “La vida de Lazzarillo de Tormes”). Fra le illustrazioni in particolare quella relativa alla famosa seduta di negromanzia nel Colosseo, fra drammatica e grottesca, ma sono tutte notevoli, sia di contenuto che di forma (una scrittura agile e nervosa). E, intervallate, le interpretazioni del Classico secondo Dalì, la revisione di opere di “Messer Michelagnolo”, dal “Ragazzo accovacciato” alla “Cappella funebre dei Medici”, dalla “Pietà di Palestrina” al “Mosè”, alla “Creazione di Adamo” e tutto risulta come cristallizzato in una vivida trasfigurazione onirica. In particolare “Giuliano de’ Medici”, “Deposizione dalla croce”, “Eco geologica” (dalla “Pietà”), la cui struttura lascia intuire un “oltre” impresso nella composizione stessa delle figure. Ed è il senso di “Alla ricerca della quarta dimensione”, dove confluiscono motivi cari a Dalì, il suo lungo, appassionato ed appassionante percorso dove il fine ultimo è un’arte che sia sintesi di umano e qualcosa che lo superi. La quarta dimensione, appunto.
“Dalì. Il sogno del Classico”, Pisa, Palazzo d’arte e cultura Fondazione palazzo Blu, fino al 5 febbraio. Da lunedì a venerdì h.10-19, sabato e domenica h.10-20. Biglietto euro 12, audio guida inclusa, ridotto da 5 a 10. Da segnalare, infine, il magnifico catalogo edito da Skira.
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