Un giorno remoto in un’isola remota in un tempo remoto. Da giorni il suolo di Thera (Santorini), nell’arcipelago greco delle Cicladi, era percorso da un tremito in continuo crescendo, al quale faceva eco il brontolìo del vulcano che incombeva sull’isola. Messi in allarme gli abitanti di Akrotiri, il centro più importante, cominciarono a lasciare le case e ad emigrare verso altri luoghi e fu la loro salvezza, perché quando la montagna esplose riversando lava, lapilli e pomice rossa e poi uno tsunami sommerse la linea di costa, la città era deserta. Almeno cosi risultò dagli scavi eseguiti a Santorini, dove la tragedia si consumò nel XVII secolo a.C., forse decretando la fine della civiltà minoica. Una tragedia che molti secoli dopo, nel 79 d.C., si ripeté in un’altra area del Mediterraneo, nella Campania felix romana.
Ma a Pompei non vi furono segnali premonitori, appena qualche lieve sussulto che non turbò gli abitanti, memori del terremoto del 62. Così, quando il Vesuvio eruttò, la nube piroclastica fuoriuscita dal cratere soffocò la maggior parte dei pompeiani in fuga, seppellendo tutto, uomini e cose, in un mare di cenere. Poi l’oblìo, finché nel 1784, sotto i Borboni, iniziarono i primi scavi ed emersero quelle meraviglie che divennero una tappa d’obbligo per i viaggiatori del Grand Tour. E questi due importanti centri del Mediterraneo accomunati da una stessa tragedia sono ora il tema della mostra alle Scuderie del Quirinale, “Pompei e Santorini. L’eternità in un giorno”.
Il filo rosso che lega entrambi è subito evidente, osservando i famosi calchi di Pompei ed alcuni vasi incrostati dai lapilli accanto ai pithoi di terracotta rinvenuti negli scavi di Akrotiri, giare usate per usi domestici e decorate. E così le figure femminili, splendida testimonianza di pittura parietale minoica, alle quali fanno da controcanto gli affreschi pompeiani, di non meno pregevole fattura. E’ un dialogo nel tempo fra due mondi scomparsi, lontani fra loro quasi 17 secoli, e tuttavia in forte relazione non solo per l’evento catastrofico ma esteticamente, denotando due società ricche e raffinate. Ecco una serie di splendidi reperti pompeiani, un efebo portalucerna in bronzo, l’ermafrodito aggredito da un satiro in marmo, gioielli, un sontuoso servizio da tavola in argento, 20 pezzi, brocche, un portavivande in bronzo, una cassaforte dalla complessa serratura, lacerti di affreschi (il giardino ricco di essenze, come amavano i romani, Dioniso e Arianna a Nasso, Nozze di Alessandro Magno e Rossane e, davvero curioso, Venere su una quadriga trainata da elefanti). Qui colpisce la vivacità cromatica che ritroviamo nello spettacolare ninfeo decorato con mosaici in pasta vitrea e due eleganti erme ai lati e nel Larario, con le divinità protettrici della casa. Impressionanti poi un rilievo in marmo che evoca il terremoto del 62 d.C. con i templi, le case e le persone raffigurate di sghembo e le radici combuste di due alberi emersi durante gli scavi.
Akrotiri, dove una metodica campagna archeologica ha messo in luce un centro dalla struttura urbana molto articolata (si veda il filmato nella saletta di proiezione). Un centro fiorente, anche per gli scambi commerciali (soprattutto con la vicina Creta), e qui figurano interessanti testimonianze della vita quotidiana. Come le “brocche mammillate”, a forma di dea-uccello, un tavolino per le offerte decorato con motivi floreali, il calco di un tavolo ligneo intagliato, una coppia di alari, vasellame di vario genere e due affreschi parietali di geometrica bellezza, “Il ragazzo nudo” e “I giovani pescatori”. Notevole poi un altro affresco nel quale appare il porto di Akrotiri affollato di navi, prezioso documento storico che ci rimanda l’immagine di una società molto dinamica (e lo completa un altro affresco con riprodotte due cabine di poppa).
Queste due immani tragedie occorse nel bacino mediterraneo hanno sedimentato nell’inconscio collettivo e soprattutto hanno stimolato la fantasia creativa nei secoli. Platone nei suoi “Dialoghi” parla del mito di Atlantide forse ispirato a Thera e qui è presente un volume del ‘400 in latino tradotto da Marsilio Ficino insieme ad un altro non meno importante, le “Epistolae” di Plinio il Giovane, che tratta della morte dello zio Plinio il Vecchio durante l’eruzione del Vesuvio. Poi, naturalmente, le arti figurative, con opere rilevanti tutte dedicate al Vesuvio e tutte di intensa drammaticità. Come, citandone alcune, quella di Micco Spadaro, l’eruzione del 1631 con il popolo che reca in processione le reliquie di San Gennaro”, o William Turner, una conflagrazione di luci ed ombra, Frédéric-Henri Schopin, il dramma dei fuggiaschi, fino a Renato Guttuso (“iddu”, l’Etna con le sue sciare di fuoco) e Andy Wharol (molto bello anche un gruppo statuario di Giovanni Maria Benzoni). E non dimentichiamo il cinema, dal muto (da “Gli ultimi giorni di Pompei”, 1908, di Arturo Ambrosio, a “Gli ultimi giorni di Pompei”, 1959, di Sergio Leone e Mario Bonnard).
E i calchi dei corpi di uomini e animali e gli alimenti combusti sono lì a testimoniare della fragilità del nostro pianeta nonché della caducità del nostro breve cammino terreno. Lo sottolineano in particolare due opere di artisti belgi, l’inquietante “Black Widow, di Jan van Oost, e “Vanitas”, di Hans Op de Beck, una rilettura in chiave moderna del “memento mori” nella pittura europea del ‘600. E la mostra nel suo complesso diventa un po’ una metafora della storia dell’uomo ed il suo complesso rapporto con nostra Madre Terra.
“Pompei e Santorini. L’eternità in un giorno” alle Scuderie del Quirinale fino al 6 gennaio 2020, da domenica a giovedì h.10-20, venerdì e sabato h.10-22,30. Biglietto euro 15, ridotto 13. Per informazioni www.scuderiequirinale.it. La mostra è curata da Massimo Osanna, Direttore del Parco Archeologico di Pompei, e da Demetrio Athanasoulis, Direttore dell’Eforia delle Antichità delle Cicladi, con Luigi Gallo e Luana Toniolo.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 3 novembre 2018.il2 marzo 2020.
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