Me lo chiedevo assistendo a quella semplice ma solenne cerimonia che ha inaugurato l’Anno Giubilare, l’apertura della Porta Santa quale simbolico inizio di un percorso nuovo. Appunto, simbolico, il varcare la soglia che significa lasciare indietro parte di sé ed indossare un abito nuovo, quello della Misericordia voluto da papa Francesco. E di nuovo, cosa vuol dire questa parola: come farla propria oltre il semplice suono semantico, renderla cioè significato “reale”: incarnarla nella vita di tutti i giorni, nel quotidiano di un mondo malato dove per l’amore sembra non esserci più posto?
Ed è questa la sfida di papa Francesco, rivolta ad ognuno di noi, credente od ateo che sia, ritrovare quella parte che ci accomuna tutti, anche se sepolta da egoismi di varia natura (di profitto, etnici o quant’altro), ovvero l’uomo nella sua essenzialità. E’ il messaggio che parte sì da una visione cristiana perché, come scrive Francesco nella Bolla di Indizione del Giubileo, “L’architrave che regge la vita della Chiesa è la misericordia”, ma già diventa ecumenico, relazionandosi all’Antico Testamento e all’Islam, quando parla del Misericordioso (infatti non a caso alla cerimonia erano presenti diversi imam. D’altronde le tre religioni monoteistiche hanno un comune ceppo abramitico).
Dunque il linguaggio che si fa universale per trovare un punto comune riprendendo il discorso iniziato mezzo secolo fa con il Vaticano II e che Francesco ha accelerato perché si rende ben conto della catastrofe che incombe sull’umanità. Guerre, distruzione dell’ambiente, povertà, interessi economici, il tutto in un mondo dove lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è ancora una drammatica realtà in molti, troppi luoghi della Terra. E’ possibile rimediare, siamo ancora in tempo per salvarci?
Uniti, partendo proprio dalla Misericordia che poi è la “pietas” verso tutte le creature (come la compassione buddhista), il vecchio e saggio “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te stesso” (Confucio, La Legge Morale). Il rispetto per l’altro che per il credente è espressione di fede, per il non credente riconoscere la dignità dell’uomo e questo seme gettato da entrambi può davvero rigenerare il mondo. La funzione della Chiesa è quella di un “ospedale da campo”, come la definisce Francesco, dove accogliere e curare un’umanità ferita e corrotta.
Lo sappiamo, la corruzione è anche all’interno della Città di Pietro, e l’auspicio del papa venuto dalla fine del mondo è che tutti si prenda coscienza che misericordia significa una nuova consapevolezza. Jung diceva che l’uomo ha bisogni di simboli e questi si esprimono nelle parole che poi s’innervano nella realtà (pontefice, pontifex, deriva da pons, ponte, varcare uno spazio, quindi un termine simbolico). Ma è richiesto un atto di adesione ed ecco la sottile differenza con il Giubileo di Woytila, lì c’era l’indulgenza o remissione dei peccati, quindi soprattutto si chiedeva qualcosa, qui anche ma in più la misericordia, cioè la presa di coscienza, quindi il “dare” che significa impegnare se stessi in un’esistenza non chiusa agli altri.
La cosa più interessante è il decentramento, per così dire, del Giubileo, non più romanocentrico, con una sola Porta Santa ma diffuso nel mondo, proprio a sottolineare e solennizzare il messaggio ecumenico. Che può essere inteso da tutti e da tutti sparso all’intorno affinché germogli una nuova pianta e si possa ascoltare un linguaggio nuovo, magari simile a quello della Montagna, il Discorso delle Beatitudini, nel Vangelo di Matteo. E qui subentra il tema della Grazia, che da sempre accompagna le questioni di fede, e se è vero che essere credente (non di facciata ma “dentro”) porta quasi di riflesso ad impegnarsi nel mondo, si può comunque rendere testimonianza anche da non credenti. Basta essere uomini (e donne) di buona volontà, perché “abbiamo bisogno di perdono e di pace”, come dice papa Francesco.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 23 dicembre 2015.il25 dicembre 2015.
Discorso essenziale e “piano”.
Complimenti vivissimi che condivido pienamente.