Autunno al Palazzo delle Esposizioni
Decisamente ottimo, perché, dopo un periodo un po’ di “fiacca”, il Palaexpo si ripropone con un’invitante vetrina, ben tre mostre il cui pregio è insieme qualità delle opere esposte ed il loro essere pressoché inedite al pubblico italiano.
“Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillips Collection di Washington”, “Russia on the Road (1920-1190)”, “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano (1900-1940)”, questi i temi proposti che, oltre alla qualità di cui dicevo, nel complesso dànno un’immagine molto dinamica della struttura espositiva. “Ricerca”, tale il nuovo linguaggio del Palazzo delle Esposizioni.
Cominciamo con l’americana Phillips Collection. Circa un secolo fa Duncan Phillips, il suo fondatore e grande collezionista, pensò non al solito assemblaggio più o meno cronologico e specifico di opere d’arte, bensì ad un “museo intimo e raccolto ma anche di sperimentazione”. Un qualcosa a vasto raggio e cosa intendesse lo si deduce dalla sessantina di quadri in mostra, dal classico all’impressionismo, all’avanguardia. Ed ecco subito un intenso San Pietro di El Greco, che esula dagli schemi macerati abituali al pittore cretese (vedi la produzione toledana), due delicati Corot, una visione degli Orti Farnesiani al Palatino e Genzano, bagnati da quella calda luce italica nella quale si immergevano i pittori europei, da Lorrain a Turner, un Daumier del tutto inedito perché “La rivolta”, che evoca i moti del 1848, con l’intrinseco messaggio “politico” appare in contrasto con la sua normale vena satirica (anche se il tema sociale non è affatto estraneo a Daumier).
Da un morbido Ingres, “La piccola bagnante”, ad uno splendido Monet, “La strada per Vétheuil”, un’esplosione di luce che incanta (alla stregua delle sue famose marine) e dal simmetrico Cézanne di “La montagna di Sainte-Victoire” al Van Gogh di “Casa ad Auvers”, dove il colore denso, come in tutte le opere dell’olandese, è emozionalità pura, fino ad un delicato Degas, “Ballerine alla sbarra”, e qui il segno si mostra indeciso a causa della malattia agli occhi che aveva colpito il maestro. La pittura intimistica è presente in tre momenti o stati d’animo: di solitudine (Utrillo, “Place du Tertre”), intimismo domestico (Vuillard, “Il giornale”, che risente della lezione dei Nabis), intimismo panico (“La riviera”, tutto un tracimare della natura). E, ancora, l’espressionismo, con il tormentato Rouault, l’immancabile Picasso, un sorprendente Kokoschka (“Courmayer e il dente del gigante”, dalla grande profondità di campo), Arthur G.Dove, considerato il primo pittore astratto americano, infine la West Coast americana e l’avanguardia d’oltreoceano.
Dunque un percorso artistico al cui interno più temi s’intersecano per prepararci ad un altro che, al contrario, ha una sua logica e continuità. Perché “Russia on the Road” parla di pittura in movimento, quale scaturisce da un evento storico che per le arti in generale aveva significato un linguaggio assolutamente nuovo. Ma la fase utopica generata dalla Rivoluzione d’Ottobre durò poco, incanalandosi negli schemi del realismo socialista che, con il terrore staliniano, divenne un dogma assoluto. E tuttavia, come già nella bella mostra del 2011, della quale questa è l’ideale prosieguo, accanto agli alfieri della retorica di regime figurano personalità notevoli. Come, ad esempio, Aleksandr Dejneka (“In aria”, di geometrica purezza) o Boris Tsvetkov (“Idroaviazione”, il cui gioco prospettico ricorda i modi dell’aeropittura futurista), ma, in genere, nei temi a soggetto, pur obbedendo a regole fisse, traspare qualcosa che dà un tocco di individualità all’opera (vedi l’espressivo “Ritratto di pilota”, di Aleksandr Samokhalov, o “L’aviatrice”, di Samuil Adlivankin, venato di una leggera malizia).
Dinamismo è il leitmotiv della mostra, una società proiettata nel tempo e la pittura la narra, spesso con toni tardo impressionisti o rifacendosi alla pittura classica russa (Repin in particolare) e sono istantanee di costume per nulla trionfalistiche, sul filo della propaganda di regime, anzi (“Metro”, di Aleksandr Labas, “Viale Leningrado”, di Boris Rybcenkov e, soprattutto, “La nuova Mosca”, di Jurij Pimenov, con un che d’incantato). Frammenti di vita che, nel loro realismo, lasciano trasparire il vissuto di proletari e borghesi qui rappresentati, singoli e folla. “In tram”, di Julija Razumovskaja, “Sulla scala mobile. Metropolitana di Mosca”, di Grigorij Segal”, “La brigata della locomotiva”, di Andrej Kurnakov, “I versi di Majakovskij, di Aleksandr Dejneka, “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di pietre”, di Viktor Kudel’kin, “”La brigata Zakharov”, di Nikolaj Baskakov . E sono soprattutto i colori a creare un clima di sano vitalismo che però mostra anche delle crepe, come in “Città. Ora di punta”, di Marjia Dreznina, dove le persone hanno il sembiante di ombre su uno sfondo cupo, quasi a rappresentare l’alienazione metropolitana, di certo in contrasto con l’ottimismo di regime (e anche il trittico di Andrej Volkov esprime un che di angoscia esistenziale, sentimento peraltro ufficialmente condannato).
Ma la l’Unione Sovietica di allora (come la Russia di oggi) è uno spazio sterminato dove uomini e cose sono parte di un tutto organico in cui il rapporto con la macchina, intesa come fonte di progresso, è fondamentale (emblematico in tal senso “L’escavatorista”, di Mikhail Anikeev). E qui, accanto a rappresentazioni di un paese dai territori incontaminati (“Pionieri”, di Oleg Ponomarenko), figurano quelle di un paese tecnologicamente avanzato (le tele che celebrano i successi nello spazio, magari un po’ retoriche, per il loro significato “politico”, la gara con gli USA, e tuttavia di grande effetto plastico, come “Gloria agli eroi della cosmonautica!”, di Mikhail Kuznetsov-Volzskij). Ma protagonista resta pur sempre il popolo russo, che l’abilità dei pittori riesce a rendere oltre i canoni imposti da censura e burocrati di partito, rivelandone l’anima segreta. Un popolo in movimento, concetto ben espresso in “Di ritorno dal turno di mare”, di Tair Salakhov, realizzato durante quel breve periodo di fermenti che fu il “disgelo” kruscioviano seguito alla denuncia dei crimini di Stalin. Ma ormai si era avviato il processo di lenta disgregazione di un regime ormai sclerotizzato ed autoreferenziale e, perciò, sempre più ai margini della Storia, fino ad esserne definitivamente espulso.
Saliamo ora al piano superiore per l’ultima mostra, “Una dolce vita? Dal liberty al design italiano”. Splendida, lo dico subito, perché gli oggetti esposti, quadri, mobili, manifesti, artigianato, sono di squisita fattura, il gusto floreale del decò adattandosi ad estrose e comunque elaborate soluzioni stilistiche. Ad esempio l’elegantissimo “secrétaire” a due ante di Ernesto Basile, geniale architetto che ristrutturò Montecitorio e lavorò molto in Sicilia, soprattutto a Palermo, edifici pubblici e villini. E subito appare chiaro come il liberty non sia solo pura espressione estetica ma abbia una sua funzionalità applicata al quotidiano. Certamente eccentrica, come risulta dalle sedie e tavolo di Carlo Bugatti, raffinato ebanista che diede un impulso nuovo e del tutto inedito all’arte del mobile.
Siamo in pieno campo artigianale, l’industria ancora non produce in serie, quindi libero sfogo alla fantasia che il periodo sembra favorire, perché sono gli anni lievi della Belle Epoque, con Roma centro della vita intellettuale e mondana (e D’Annunzio suo puntuale cronista). Ed ecco gli eterei vasi di Galileo Chini, artista eclettico che fu anche pittore e scenografo, gli sgargianti arazzi di Vittorio Zecchin (“Le mille e una notte”, di chiaro sapore klimtiano: Zecchin aderì alla Secessione Romana), le incredibili terrecotte di Domenico Baccarini (“Volata di donne”). Una gioia per gli occhi, come “Conca dei bufali”, di Duilio Cambellotti, il tema a lui caro delle Paludi Pontine (insieme a Sibilla Aleramo, Balla e Giovanni Cena fondò le scuole gratuite per i figli dei contadini), gli argenti di Bugatti, “La leggenda di Orfeo”, trittico di Luigi Bonazza. Vi aleggia un aroma fiabesco, alla stregua di “La danza delle ore”, di Gaetano Previati e “Sirena”, di Giulio Aristide Sartorio, entrambi con sfumature simboliste.
Il carnaio della Grande Guerra cancella lo spirito ottimistico e subentrano le irrequietezze futuriste, Boccioni, Balla, Severini, Depero, il più “ludico” del gruppo (notare i gilet). Anch’esso, come il liberty, ha un lato funzionale, pratico (il servizio da tavola di Tullio d’Albissola), ma in genere prevale una valenza estetico-ornamentale, magari di parte (come “Profilo continuo”, la metafora plastica del Duce che tutto vede e tutto controlla). In parallelo si sviluppa il filone metafisico, con De Chirico, Carrà, Morandi prima maniera e Savinio, forse il più inquietante (“La bataille des centaures” ha qualcosa di primordiale). Ma presto si avverte il bisogno di una pausa ed è il ritorno ad una sorta di neo classicismo, qui ripercorso con le porcellane e maioliche di Giò Ponti, i mobili di Achille Funi, i quadri di felice Casorati, Mario Sironi e, soprattutto, Antonio Donghi, con il suo “realismo magico” (“Piccoli saltimbanchi”, “Circo equestre”). E dopo le geometriche costruzioni del Razionalismo, che ha il suo massimo esegeta in Marcello Piacentini, negli anni ’30 prende forma il design italiano che, dopo la guerra, maturerà progressivamente, fino ad ottenere lusinghieri riconoscimenti in campo internazionale. E questa è storia di oggi.
Inserire un commento