Ars Artem Salvat
Ars Artem Salvat
di Antonio Mazza
L’arte salva l’arte, il concetto-guida che anima l’attività della Fondazione Pro Musica e Arte Sacra e che da sempre figura come introduzione all’omonimo Festival, giunto alla sua XXI edizione. Apertura, come di consueto, in San Pietro, con la Messa celebrata da Sua Eminenza il Cardinale Comastri intervallata dalle musiche di Lorenzo Perosi, del quale si celebrano i 150 anni dalla nascita. Organista nell’abbazia di Montecassino e poi maestro di coro in San Marco a Venezia fu ordinato prete nel 1896 e, successivamente, divenne direttore del coro della Cappella Sistina. Le sue composizioni contribuirono in maniera determinante alla riforma del canto ecclesiastico promossa da papa Pio X nell’enciclica “Motu proprio”, che voleva farlo uscire dal retorico accademismo tardo ottocentesco per rinnovarne il linguaggio. E questo risulta soprattutto nella “Missa Secunda Pontificalis”, dove la linearità dell’ordito polifonico stempera in una dolcezza meditativa che si ritrova nel “Magnificat” e nel mottetto “Tu es Petrus”, che fanno di Perosi l’erede spirituale della grande Scuola Romana, Palestrina, Allegri, Carissimi, Benevoli e tanti altri. Purtroppo caduto nell’oblìo è assolutamente un musicista da riscoprire (e con lui un altro innovatore: Licinio Refice), come è avvenuto grazie al Coro del Vicariato della Città del Vaticano ben diretto da Temistocle Capone.
Uno stato di grazia che si ripete, ma in forma più severa, nel monumentale “Requiem tedesco”, di Johannes Brahms, una lunga, fervida preghiera laica modellata su passi del Vecchio e Nuovo Testamento. “Beati quelli che soffrono perché saranno confortati” (Matteo 5,4), un inizio raccolto, di tono lieve che si drammatizza gradualmente, in particolare nel terzo passaggio, “Signore, fammi conoscere il mio destino, il fine della mia vita e perché dovrò partire” (Salmo 39, 5-8), che si chiude con un accenno di fugato dove voce solista e coro formano una sola, magnifica vibrazione. E questa si prolunga negli altri momenti legati alle Scritture, la fugacità della vita (“non abbiamo quaggiù dimore permanenti ma cerchiamo la nostra casa futura”, Ebrei 13,14) che però viene riscattata dalla resurrezione dei corpi (“beati i morti che muoiono nel Signore”, Apocalisse 14,13). Qui il Requiem, raggiunto il suo apice, si placa nel respiro dell’eternità. Impeccabile la resa sia stilistica che emotiva della Bamberg Symphony Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretti da Jacob Hrusa, nonché del soprano Christina Landshamer e del baritono Konstantin Krimmel.
Ancora la Bamberg Symphony in San Paolo per un altro importante lavoro tardo romantico, la Sinfonia n.9 di Anton Bruckner. Come ho scritto nella presentazione è il suo testamento spirituale, la sintesi di un percorso musicale che qui diventa un ultimo inno alla creazione. “Den lieben Gott”, dedicata la buon Dio, nella frase esprimendosi tutto il candore della profonda religiosità bruckneriana che, in musica, si fa titanica, immensa. Nel primo movimento, “misterioso”, è come sorgesse l’alba del mondo, un sottile crescendo melodico che s’innalza in un’alternanza di piano e forte, a onde concentriche, com’è tipico del compositore austriaco. Poi tutto s’acquieta nel fiume carsico che sfocia nello Scherzo, il cuore tellurico di questa come di tutte le sinfonie di Bruckner, dove affiora un’anima primordiale, lo Spirito della Terra sul quale veglia il Grande Artefice. E a Dio si rivolge nell’Adagio finale, il presagio della morte però avvolto in una serenità che va oltre la morte, sul filo di una musica a tratti struggente. Se questa sinfonia incompiuta non eguaglia il pathos di quelle più famose, come la Quarta, “Romantica”, e la Settima, rivela comunque una profonda “pietas”, ben rimarcata dalla Bamberg Symphony diretta da Jacob Hrusa.
C’era molta attesa e curiosità per il “Vespro Universale”, cantata sacra di Andrea Mannucci su testo di Papa Francesco, 27 marzo 2020, la preghiera in una piazza San Pietro deserta. Difficile dimenticare quel giorno, il silenzio nella città ferita dalla pandemia e la pioggia come un velo opaco sulle parole del pontefice, la supplica che scaturisce dal timore ma anche dalla coscienza della fede. La melodia degli archi e poi il flauto introducono al testo recitato, poi inizia il Vespro, con il canto che esprime lo sgomento, la voce che s’incrina nel Dubbio, gli archi e le percussioni che scandiscono i tempi del Dolore. Ma c’è anche il tempo della speranza che affiora fra le pieghe del malessere, la preghiera non individuale ma corale, perché solo insieme ci si può salvare, “Su questa barca ci siamo tutti”. Ed il merito principale del Vespro di Mannucci è di aver tracciato un cammino ideale -e perfetta interpretazione del messaggio bergogliano- dove canto e melodia si sviluppano in crescendo dall’io del timore al noi della consapevolezza, concetto espresso quasi fisicamente dall’orchestra l’Appassionata diretta da Claude Villaret, Carlotta Bellotto soprano leggero, Nadina Calistru soprano lirico, Miranda Mannucci violino, Tommaso Benciolini flauto.
Da San Giovanni a Santa Maria Maggiore per il gran finale barocco con tre immortali. Inizio solare, gioioso, affidato alle trombe nel “Magnificat” del sommo Bach, con il coro che irrompe disegnando volute celesti in continua evoluzione. La serena religiosità del maestro di Eisenach, la musica quale momento di ascesi che qui trascolora dal delicato intimismo delle arie (“Quia fecit”, “Esurientes”) alla pienezza degli interventi corali (“Omnes”, “Gloria Patri”), con quel vibrato di fondo che esalta ogni passaggio. Ma, al confronto, risulta decisamente più denso, soprattutto dal punto di vista cromatico, “Dixit Dominus”, il salmo 110 musicato da Antonio Vivaldi. Una piccola, preziosa gemma della sua ricca produzione, con quel vivace riverberìo dei cori cadenzato da una robusta vena melodica ed il sinuoso incedere delle voci soliste. Colore soprattutto, che il “prete rosso” aveva nel suo Dna, essendo musicalmente cresciuto fra gli splendori della Scuola veneziana. E, a suggello del festival, “Zadok the Priest”, di Haendel, inno celebrativo per l’incoronazione di Giorgio II nel 1727, brano ovviamente un po’ trionfalistico. Vigorosa l’interpretazione del coro e orchestra della Cappella Ludovicea e della Venerabile Cappella Musicale Liberiana diretti da Ildebrando Mura, mentre qualche sbavatura si è avvertita negli interventi delle voci soliste. Nel complesso, anche questa XXI edizione lascia il segno: non “solo” concerti ma elevazione spirituale, nel senso più puro del termine.
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