Quando, al termine della cattività avignonese, Martino V Colonna fece ritorno a Roma, ne sancì la rinascita dopo un secolo di abbandono da parte dei papi. Una rinascita non solo edilizia ma anche artistica, poi proseguita dal suo successore, Eugenio IV Condulmer, protettore della nascente cultura umanistica (questa troverà il suo fulcro nell’energica azione di Pio II Piccolomini, egli stesso un grande umanista). E’ in questo clima di fervore creativo, che vide quali protagonisti pittori del calibro di Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Pinturicchio e letterati come Leon Battista Alberti e Flavio Biondo che matura l’arte di un grande pittore della Roma agli albori della Rinascenza. Antonio Aquili, detto Antoniazzo Romano, con bottega in via Cerasa, l’odierna piazza Rondanini, il cui notevole percorso artistico viene proposto per la prima volta in una bella mostra a Palazzo Barberini (“impaginata”, per così dire, da una vivace messa in scena architettonica che ne illustra le varie fasi pittoriche).
Siamo nel XV secolo, in uno scenario artistico dominato dal gotico internazionale, i cui maggiori interpreti italiani sono Pisanello e Gentile da Fabriano, che operano anche a Roma. Il giovane Aquili si forma in questo clima ed i suoi inizi seguono appunto gli stilèmi dell’epoca ma distaccandosene gradualmente, nella ricerca di un’autonomia espressiva. In effetti i primi lavori su committenza, come “Madonna con il Bambino” e “San Francesco” riprendono le figure su fondo oro, com’è tipico dei moduli gotici, ma già nel trittico di Subiaco, “Madonna con il Bambino e i Santi Francesco e Antonio”, si avverte un sapore nuovo.
Vedi il panneggio e le figure stesse, non più tendenzialmente ieratiche bensì mosse, direi umanizzate, come appare evidente in un altro famoso trittico, “Madonna con il Bambino e i Santi Pietro e Paolo e il committente Onorato Caetani”, in onore della potente famiglia, il suo ramo laziale che vantava due pontefici (Gelasio II e Bonifacio VIII).
Ormai il Nostro è conosciuto, “Antonio detto Antoniasso romano, dei migliori che fussero allora in Roma”, scrive il Vasari nelle “Vite”, e lui, membro esimio dell’Accademia di San Luca (statuto in mostra), amministra la sua fiorente bottega. Produce immagini devozionali, soprattutto mariane, per confraternite e cappelle private, genere inaugurato dal Giubileo del 1477 su prototipo verrocchiesco (deliziose le tempere su tavola rappresentanti la Madonna con il Bambino). L’urbe, in questi anni, è una fucina d’arte, Benozzo Gozzoli, il Ghirlandaio, Filippino Lippi, Perugino (anche Piero della Francesca, ma di lui nulla è rimasto) e Antoniazzo collabora con pittori di vaglia, come Melozzo da Forlì nella Cappella Bessarione ai Santi Apostoli e Piermatteo d’Amelia, un grande da riscoprire (vedi la splendida pala dei Francescani di Terni). Ma non dimentica il passato, la gloriosa Scuola Romana a cavallo fra XIII e XIV secolo (Cavallini, Torriti, Rusuti) e lo dimostra in particolare la copia della “Icona della Madonna di Sant’Agostino”, di gusto bizantineggiante (in tema con il medioevo è esposto il bellissimo Cristo romanico di Sutri).
Ma ecco le grandi pale d’altare, il punto più alto della sua arte pittorica, come dimostrano “San Vincenzo, Santa Caterina, Sant’Antonio da Padova”, da Montefalco, la chiesa-museo di San Francesco superbamente affrescata dal Gozzoli, “San Vincenzo Ferrer e il committente” e “Natività e i Santi Andrea e Lorenzo”. E’ una delle sue opere migliori, con influssi nordici, dove si avverte il superamento degli schemi tardo medioevali, verso quel nuovo che è il rinascimento pittorico (infatti sembra appartenere più al ‘500 maturo che a fine ‘400). E proprio questo è il senso del fortunato percorso artistico di Antoniazzo, l’essere punto di passaggio fra due epoche entrambe fondamentali della pittura non solo romana ma del Centro Italia. Emblematiche risultano la “Crocifissione e Santi, Annunciazione, Santa Lucia e Santa Apollonia, San Girolamo e San Paolo eremita” e “Santa Caterina d’Alessandria, Santa Brigida di Svezia”, affreschi staccati che risentono di moduli mantegneschi (Mantegna venne a Roma nel 1489, su invito di papa Innocenzo VIII Cybo).
Più tradizionale risulta “Annunciazione e il cardinale Torquemada” (con la Vergine che distribuisce la dote alle “zite”), realizzato per il Giubileo del 1500. Ma ormai la scena sta cambiando, grazie anche ad Antoniazzo, perché nell’Urbe sono attivi due geni, Raffaello e Michelangelo, che hanno stravolto completamente le regole. E la bottega del Nostro perderà sempre più importanza perché, morto lui, i figli non sapranno rinnovarsi, come dimostra il trittico della “Resurrezione” di Marcantonio Aquili, pur di notevole impianto (e con suggestioni umbre). “Mastro Antoniasso pentor morse a dì 17 aprile e lasciò per li anniversari a la Compagnia del Gonfalone fiorini 25”, ma la nuova strada era ormai tracciata.
“Antoniazzo Romano, Pictor Urbis” a palazzo Barberini fino al 3 marzo. Da martedì a domenica h.10-19, lunedì chiuso. Biglietto intero euro 8, ridotto 6. Per avere un quadro completo dell’arte di Antoniazzo la mostra deve essere integrata con un percorso romano, i vari punti dell’Urbe dove egli operò, spesso con effetti di grande bellezza, come la Cappella Bessarione o l’immenso affresco nell’abside di Santa Croce in Geusalemme (depliant illustrativo in biglietteria).
Scritto da: Antonio Mazzain data: 10 febbraio 2014.il11 marzo 2014.
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